69. Mostra Internazionale d’Arte CinematograficaO Gebo e a Sombra (Fuori Concorso) 1h 34’ – Regia: Manoel de Oliveira Solamente i classici hanno diritto all’immortalità. E Manoel de Oliveira classico lo è ormai diventato per diritto. Non sono certamente i suoi certificati 104 anni a dargli autorità. Dal bel saggio biografico del filosofo del diritto Francesco Saverio Nisio (casa editrice “Le Mani”) apprendiamo che l’anziano maestro è nato a Porto, a nord del Portogallo, l’11 dicembre 1908 per essere iscritto all’anagrafe il giorno dopo. Una fortunata discrasia anagrafica che proietta il nostro, fin dalle sue origini, nel futuro. Un segno di vitalità confermato dalle sue opere, ognuna delle quali è testimonianza di lucidità e di “agudeza”, di modernità e di flagranza. Anche quest’ultimo O Gebo e a Sombra, presentato a Venezia fuori concorso, colpisce al cuore: si tratta di una sapienziale parabola sul mistero dei legami esistenziali, sulla loro magnifica retorica che sfida le nostre ipocrisie e i nostri egoismi. Di ossessioni legate a un passato sfuggente e struggente trattava pure il precedente O Estranho Caso de Angélica, dove un fotografo viene spinto al suicidio dal particolare del sorriso ritratto di una fanciulla defunta. Ora Oliveira affronta la materia di una pièce datata 1923 dello scrittore suo conterraneo Raul Brandão, celebre per il suo stile sospeso tra realismo e lirismo. Terramatta – Il Novecento Italiano di Vincenzo Rabito analfabeta siciliano (Giornate degli Autori – Evento Speciale) 1h 15’ – Regia: Costanza Quatriglio A volte le parole possono dare corpo alle immagini. Ed è un corpo a corpo con la realtà a ispirare questa nuova partitura di Costanza Quatriglio, cineasta palermitana per la quale ogni approdo sembra essere un nuovo punto di partenza. Il suo Terramatta mescola, con toccante partecipazione emotiva, immagini di repertorio e reportage flagranti, passato e presente di una condizione antropologica che ha per scenario ancora una volta la sua Sicilia. La materia la fornisce la narrazione spuria di Vincenzo Rabito (1899 – 1981), “inafabeto” di Chiaramonte Gulfi, il cui dettato autobiografico, torrenziale e decostruito, è diventato un caso editoriale targato Einaudi, titolo divenuto prima spettacolo teatrale e ora film. La regista attiva con perizia postmoderna le dovute connessioni, evocando invece di illustrare, inscrivendo la storia del contadino Rabito nell’ampia griglia della Storia condivisa. In questo è assecondata dalla complicità di Chiara Ottaviano, autrice con lei della struggente sceneggiatura, e dall’apporto di Roberto Nobile, incisiva voce narrante. Così i lacerti dell’Istituto Luce, opportunamente riquadrati, si amalgamano al diario di viaggio nel paesino originario del protagonista, dove vivono ancora i figli ormai anziani. La nave dolce (Fuori Concorso – Proiezioni Speciali) 1h 32’ – Regia: Daniele Vicari Per Daniele Vicari la realtà è tutto. Realtà da sondare, decifrare, interpretare. E ancora una volta la parola è il medium privilegiato, buono a riesumare il passato per rovesciarlo, come materia rovente, nel presente. La realtà indagata è sempre quella marginale, il vissuto degli ultimi che si fa bruciante testimonianza di lacerazione sociale: è La Nave Dolce, dove il racconto dei protagonisti prova a sollecitare le coscienze, facendo i conti con avvenimenti della Storia recente, a partire dal traumatico evento della caduta del muro di Berlino. La nave del titolo è la Vlora sbarcata nel porto di Bari l’8 agosto del 1991 con il suo carico di ventimila albanesi. Se “dolce” è il sapore della speranza di riscatto per questi diseredati convinti, da un abbaglio mediatico, di aver conquistato l’Eldorado, l’”amaro” è tutto in quell’Italia degli anni Novanta, già segnata dal disfacimento sociale, politico ed economico e in preda all’offensiva mafiosa culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Reperti d’archivio ricostruiscono sinteticamente quell’ombroso contesto, mentre le testimonianze dei migranti decifrano illusioni e delusioni, fallimenti e faticose affermazioni (tra questi albanesi approdati a Bari c’era il danzatore Kledi Kadiu, poi lanciato dai talk show di Maria De Filippi). Pinocchio (Giornate degli Autori) 1h 24’ – Regia: Enzo D’Alò In cima ai titoli di coda, l’omaggio di un’epigrafe: “Ciao Lucio”. E’ una vignetta che ritrae il burattino inventato dalla sopraffina penna di Carlo Collodi intento a piangere sulla tomba dove campeggiano il cappello e il clarinetto del compianto maestro di tutti Dalla. La commovente “reverie” di questo Pinocchio richiama iconograficamente quella della copertina del settimanale “Epoca” che, nel Natale del 1966, ritrasse Topolino in lacrime per la scomparsa recente del suo inventore Walt Disney. E in effetti, il nuovo film di Eno D’Alò nasce sotto il segno di Lucio Dalla, complice musicale dell’impresa (attraverso brani che citano Rossini e Nino Rota) come lo è stato Paolo Conte per il precedente capolavoro d’animazione, La Freccia Azzurra. E sempre Dalla regala il suo timbro al pescatore verde, una delle tante apparizioni–reinvenzioni di questa versione del classico animata dai tratti iperrealistici del fumettista Lorenzo Mattotti, screziato omaggio concettuale ai tanti illustratori che, a partire dall’Ottocento per tutto il Secolo Breve hanno fluidificato l’iconografia del burattino più celebre del mondo. Cherchez Hortense (Fuori Concorso) 1h 40’ – Regia: Pascal Bonitzer La raffinata (e ormai proverbiale) cucitura drammaturgica, che è la peculiare caratteristica del Made in France, deve gran parte della propria aura all’abilità dei dialoghisti. Sono loro, infatti, a fornire la materia preziosa alle performance misurate e incisive degli interpreti. Ennesima conferma di questo primato che riguarda la cinematografia d’Oltralpe è l’ultima fatica di Pascal Bonitzer, navigato sceneggiatore per André Techiné e per Jacques Rivette, ex critico cinematografico dei “Cahiers du Cinéma” e attualmente direttore del Dipartimento della Scuola di Cinema “La Femis”. Mettendo a frutto la sua arguzia dispiegata sugli script, una volta passato sia pur tardivamente alla regia, Bonitzer ci regala, con Cherchez Hortense, una commedia umana intellettualmente avvertita, strizzando un occhio a Woody Allen ma proiettandosi con ironico rigore a indagare i gangli antropologici del proprio contesto culturale, a partire da un’acuta osservazione della quotidianità in fieri. Den skaldede frisør (Love Is All You Need) (Fuori Concorso) 1h 56’ – Regia: Susanne Bier La danese Susanne Bier continua a sorprenderci col suo ritorno alla commedia a seguire Dopo il Matrimonio e In un Mondo Migliore, quest’ultimo premiato con l’Oscar. Generi a parte, il tema della regista scandinava (figlia di un ebreo tedesco e di una danese dalle origini ebraiche e russe) è sempre quello del crogiolo familiare capace di enucleare contraddizioni brucianti e velenose. Se in The One and Only il nodulo individuato era quello dell’adozione e in Once in a Lifetime quello del sogno perduto di una sfortunata cantante adolescente, in quest’ultimo Love Is All You Need è la vertigine amorosa a costituire il punctum dolente. Scenario dal retrogusto favolistico è una villa a Sorrento, uno scarto geografico e climatico lungo la rotta Danimarca – Italia (dalla tragedia alla commedia) che rimanda a certi detour hollywoodiani alla Billy Wilder o alla Blake Edwards, per il racconto di un matrimonio da fare il cui cerimoniale s’ingolfa in un “impasse” emotivo che apre ferite passate e delusioni recenti, mettendo in moto gli ormoni e le coscienze dei protagonisti. Ida (Trine Dyrholm), bionda parrucchiera in lotta con un cancro che la lacera, coglie il marito in flagrante prassi da adulterio. Philip (Pierce Brosnan) è un vedovo che, a Copenaghen, lavora come importatore di frutta. Un incidente d’auto li fa incontrare nello scontro all’aeroporto mentre sono in procinto di recarsi al matrimonio dei rispettivi figli nel solare, italico sito. The Iceman (Fuori Concorso) 1h 45’ – Regia: Ariel Vromen Michael Shannon, oggi, è l’attore che riesce perfettamente a incarnare il lato oscuro di un’America sempre più affannosamente impegnata a nascondere le proprie fragilità, che sono le stesse dell’Occidente in crisi. In The Iceman affronta un personaggio realmente esistito, il killer professionista di Jersey City Richard Kuklinski, classe 1935, con un curriculum di centinaia di omicidi e due ergastoli scontati nella prigione di Trenton dove è morto nel 2006. Un mercenario d’onore, padre e marito esemplare, a servizio di famiglie tristemente rinomate come i Gambino e i Clemente, implacabile esecutore (con un solo tabù: non uccidere donne e bambini) ed esperto nel congelare i cadaveri delle sue vittime (da qui il soprannome che dà il titolo al film). Il personaggio realmente esistito a cui Shannon conferisce spessore ombroso è il fulcro di questa sanguinosa parabola esemplare che si snoda lungo l’arco di tre lustri, a partire dagli anni Sessanta. Il regista di origini israeliane Ariel Vromen è assai abile nel fare emergere la sostanza psicologica del suo protagonista, immergendolo senza alcun compiacimento retorico in una griglia noir di antica tradizione made in Usa. Il cast, vibrante e cool al punto giusto si avvale di James Franco e di Ray Liotta, mentre la ben ritrovata Winona Ryder è bravissima nel donare le giuste sfumature nevrotiche al personaggio della moglie di Kulkinski. Un solido capitolo del romanzo infinito del Male oscuro che attanaglia ogni speranza di redenzione, allora come oggi, in quell’America che siamo tutti noi. Araf (Somewhere in Between) (Orizzonti) 2h 05’ – Regia: Yesim Ustaoglu Con Araf, la regista Yesim Ustaoglu ci regala la folgorante dimostrazione della tenuta di una cinematografia rigorosa, intensa, lacerante: di quello che oggi è il cinema in Turchia. E’ un film che racconta dello sconfinamento d’identità che si rifugiano nel silenzio e nella solitudine, spirale di un Nulla che incombe. Il titolo stesso allude a un “luogo in mezzo”, un confine che è anche un limite estremo, un dead point. E’ la stazione di servizio dove lavorano due ragazze adolescenti, Zhera (Neslihan Ataguül) e Olgun (Baris Hacihan), consumate nel loro percorso di crescita dalla monotonia di lunghe giornate tutte uguali. Fino a quando entra in scena Mahur (Özcan Deniz), un misterioso camionista che è in grado di risvegliare brutalmente il torpore sessuale delle due protagoniste, attraverso le lusinghe del triangolo amoroso (una delle due fanciulle resta incinta) che troncherà ogni aspirazione di rivalsa. A dipingere questo cul de sac, immerso in una Turchia piena di ombre, è una cineasta di rara sensibilità, a cui non sfugge di mano la scottante materia narrata, in grado com’è di controllarne le temperature (si veda la scabrosa scena dell’espulsione del feto nel bagno, ultima e lacerante decisione della protagonista disperata). In quel confine c’è tutta l’incertezza del nostro presente, dell’interruzione estrema di corteggiare il vuoto prima di caderci dentro. Bellas Mariposas (Orizzonti) 1h 40’ – Regia: Salvatore Mereu La sorpresa italiana di questa 69° Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica è senz’altro Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, assieme a quella de L’Intervallo di Leonardo Di Costanzo entrambi presentati nella sezione “Orizzonti”. La sorpresa non riguarda il fatto che quella di Mereu sia una commedia (di commedie se ne fanno sin troppe in Italia) ma che sia un film di rara qualità. Una misura di stile già rilevabile nello splendido Sonetaula e nell’esordio di Ballo a Tre Passi, evocazioni suggestive e avvertite dell’individuazione di un territorio (ri)generatore di mitologie contemporanee, quello della Sardegna, isola natale del nostro autore. L’Intervallo (Orizzonti) 1h 26’ – Regia: Leonardo Di Costanzo Anche in questo rigoroso e intenso L’Intervallo, opera dell’apprezzato documentarista Leonardo Di Costanzo, i protagonisti sono una coppia di adolescenti in una vicenda che si snoda lungo l’arco di una giornata. Lo scenario è uno stabilimento abbandonato nel degrado di frontiera della Napoli assediata dall’epica dolente di Saviano. Salvatore deve sorvegliare la coetanea Veronica colpevole di aver fatto un torto a un boss di quartiere. In questa breve attesa, tra i due s’instaura un contraddittorio rapporto di complicità, favorito dall’aura di un esoterico legame con l’ingombrante spettro di una giovane che, rimasta incinta, si è suicidata. |