Festival Internazionale del Film di Roma 2012Siamo arrivati alla settima edizione del Film Internazionale del Film di Roma. Il tempo vola sulle ali del cinema macinando, film dopo film, sia suggestioni sia colpi di fulmine, non senza l’amara constatazione di qualche bruciante delusione. Comunque, bisogna tirare le conclusioni. Anche perché, per questa edizione, il festival ha cambiato direttore: dopo aver diretto per lunghi otto anni la Mostra di Venezia, Marco Müller ha preso il timone subentrando a Piera Detassis. Un cambio della guardia per niente tranquillo, che ha visto pure le polemiche dimissioni del presidente Gian Luigi Rondi, sostenitore puntuto del direttore uscente. Ma per fortuna, non è la politica a fare i festival: sono le idee tradotte in progettualità, sono i buoni film. Quest’anno, a lasciarci perplessi, al di là della tenuta complessiva della manifestazione, sono stati i risultati del verdetto finale, assegnato da una giuria presieduta da Jeff Nichols (cineasta statunitense molto cool, con all’attivo tre film che ci sono molto piaciuti, un nome da tenere d’occhio). La perplessità ce l’hanno provocata i due premi conferiti al film E La Chiamano Estate, quello per la migliore regia a Paolo Franchi e quello per la migliore interpretazione femminile a Isabella Ferrari. La mattutina proiezione stampa del film di Franchi è stata accolta da un rumoroso dissenso, con il corollario di fischi e battutine che hanno evidenziato le pecche del suo precario equilibrio narrativo. Con un incipit affidato all’omonima canzone di Bruno Martino e all’evergreen di Rita Pavone “Che mi importa del mondo”, il film di Franchi affronta il delicato tema dell’abbandono e del suicidio attraverso il personaggio di Dino (Jean-Marc Barr), un anestetista quarantenne prigioniero di quella che Sartre amava definire la “coscienza infelice”. Dino non ha elaborato il trauma della prematura morte del fratello e dell’abbandono materno, e per questo si ritrova incapace di amare fisicamente la moglie Anna (Isabella Ferrari), spingendosi in un notturno e compensativo vortice di dissoluzione fatto di prostituzione e di partouze in locali di scambisti. Il suo disagio lo conduce a intraprendere un percorso di ricerca a caccia degli ex–fidanzati di Anna, per indagare sul rapporto avuto con la moglie e arrivando a chiedere loro di prendere il proprio posto tra le coltri. L’estate di Franchi è naturalmente malinconica, e rimanda agli specchiati paesaggi riflessi nell’interiorità di Antonioni. Il risultato è un melodramma fin troppo algido e pretenzioso, incapace di colmare il buco drammaturgico dell’impianto e certe fragilità narrative, il cui esempio è l’utilizzo insistito della lettera d’addio con la voce off di Dino. Si parla d’incomunicabilità all’interno di una coppia in amore, di annullamento fisico e interiore, tutte materie che fanno pensare al recente Shame, dove il personaggio principale interpretato da Michael Fassbender affronta un simile travaglio, sciogliendolo patologicamente in un morboso rapporto con il sesso, in una dipendenza erotica che conduce a un’afasia annichilente. Fatto sta che Isabella Ferrari è molto bella e che i suoi nudi sono eleganti: il suo impegno interpretativo merita rispetto (non è colpa sua, se i dialoghi appaiono, qua e là, ridicoli) come, del resto, per Franchi, l’avere affrontato una tematica spinosa. Fischi in sala a parte, si tratta dell’ennesimo coitus interruptus di un cinema, quello italiano, capace di individuare i soggetti senza riuscire a svilupparli adeguatamente. E, a tal proposito, soffermiamoci sugli altri film italiani presentati in concorso e nelle altre sezioni del festival. Claudio Giovannesi si porta a casa il Premio Speciale della Giuria per Alì Ha gli Occhi Azzurri. L’ombra che aleggia, in questo caso, è quella di Pasolini per questo bel film ambientato in una Ostia invernale. E’ la storia di Nader, ragazzo egiziano nato a Roma, che va alla ricerca della propria identità lungo l’arco di una settimana. I nodi sono quelli legati all’empatia e alle pulsioni, amore e amicizia declinati in un conflitto aspro che provoca, nel protagonista, una fuga dalla famiglia. Nader vive la sua storia d’amore quasi in clandestinità, la sua quotidianità è scandita da piccoli furti che precedono la sua zoppicante frequentazione scolastica. Giovannesi pedina il suo personaggio, evidenziando il fenomenologico evolversi di questa tranche de vie marginale, facendo lievitare la narrazione della quotidiana discesa agli inferi con ragionata partecipazione, per trasformarla in una metafora di una condizione umana disagiata e dolorosa. Con questo film che mescola la desolazione fisica di un paesaggio degradato all’interiorità del protagonista, ragazzo di borgata, il direttore della fotografia Daniele Ciprì filma il suo lavoro migliore: immagini sporche e dense per uno dei migliori film italiani visti fino adesso. Il premio è meritato: per una volta l’impegno e il coraggio si sciolgono in una maniera di fare cinema rigorosa e intensa. Per ciò che concerne Pappi Corsicato, l’ultima fatica presentata a Venezia è la conferma di una sua vocazione: un linguaggio dagli umori variegati, una maniera di contaminare suggestioni musicali e vitalità pop utilizzando un sarcasmo tagliente perfettamente integrato con il trend estetico contemporaneo. Il suo è un marchio di fabbrica che ci stimola intellettualmente e che ci diverte con intelligenza. In questo Il Volto di un’Altra, Corsicato si prende gioco della chirurgia estetica, confezionando una commedia sull’essere e sull’apparire che adopera un senso del grottesco alla maniera di Marco Ferreri. Una smagliante Laura Chiatti incarna il personaggio di Bella (di nome e di fatto), conduttrice televisiva di un programma sulla chirurgia estetica che viene licenziata dall’emittente a causa di un calo di ascolti. Mentre Bella ritorna verso casa, un water sfonda il parabrezza della sua auto sfigurandole il viso. Il cinico René (un ironico Alessandro Preziosi) è suo marito, il chirurgo che opera in diretta nel programma. E i due progettano una truffa ai danni dell’assicurazione. Ricostruire il volto di Bella in diretta è una maniera per rilanciare la sua immagine e fare audience. Il film è una colorata black comedy, con una colonna sonora che saccheggia le composizioni di Francesco De Masi, recuperando vecchie glorie del calibro di Angela Goodwin, Franco Giacobini, Arnaldo Ninchi e Rosalina Neri. Corsicato è tagliente come le forbici inquadrate nella sigla del programma di Bella, i siparietti musicali (coreografati da lui stesso) risultano originali nel loro citazionismo pop e l’apocalittico scenario agreste fa venire in mente quello veneto della remota, sottovalutata commedia Il Disco Volante di Tinto Brass. Corsicato ci continua a piacere, il suo film è una boccata d’ossigeno in un complessivo panorama italiano perlopiù desolante. Per la sezione “Prospettive Italia” partiamo dal film vincitore, Cosimo e Nicole di Francesco Amato. Qui s’inquadra un altro aspetto del G8 di Genova. Prendendo le distanze dal serrato e corale film di Daniele Vicari, Diaz, Amato (al suo secondo lungometraggio) racconta una storia d’amore con Riccardo Scamarcio e la bellissima attrice francese Clara Ponsot. Decide di perseguire la strada del privato più che del politico, per riesumare il valore imperativo dell’empatia amorosa, un messaggio rivolto agli afasici (più o meno ideologizzati) dell’era dei social network, recuperando l’etica perduta in un’Italia sempre più fatiscente (non solo da questo punto di vista). Il piccolo miracolo di questo film sta tutto nell’adesione mostrata dal regista nei confronti dei suoi due protagonisti, nella capacità di scandagliare le loro emozioni, di evidenziare il loro disagio di apolidi perduti in una società senza più identità. Come in tutte le storie d’amore è un colpo di fulmine a innescare il meccanismo narrativo. Mentre vagabondano per l’Europa e un grave incidente ostacola il loro legame, Cosimo e Nicole, giovani e precari amanti della musica, si fanno protagonisti di un vero e proprio anelito di libertà. Grazie a dei flashback, durante l’interrogatorio in carcere, seguiamo la vicenda dei due giovani e apprendiamo cosa li ha spinti alla separazione. Alla fine, l’amore vince su una realtà sempre più amara: il riscatto umano e sociale diventa il convinto messaggio positivo di questo piccolo bel film. Altrettanto efficace ci è parso Italian Movies di Matteo Pellegrini, un’altra favola moderna sull’immigrazione, dove un gruppo di un’impresa di pulizia che lavora in uno studio televisivo, dove si gira la telenovela “Tormenti”, prende in prestito una telecamera per riprendere le nozze di un convenuto amico. A questo punto prende corpo la trama, dove il nutrito gruppo multietnico s’industria in un’attività parallela: di giorno si lavora alle pulizie, di notte si utilizza lo studio per riprendere dei veri e propri videoclip che gli immigrati commissionano per spedirli ai loro cari. Una commedia degli equivoci che diverte emozionando. Nel cast, notiamo il russo Aleksej Guskov (quello de Il Concerto) accanto a una delle nostre migliori attrici, Anita Kravos. C’è poi Filippo Timi, e un bravo attore di teatro, Michele Di Mauro. Ai confini del trash, è l’esordio alla regia di Carlo Lucarelli, L’Isola in Via degli Uccelli, un giallo ambientato nel gennaio del 1925. Da dimenticare tout court. Un altro scivolone lo compie Susanna Nicchiarelli, alla sua seconda regia con La Scoperta dell’Alba, che prende le mosse da un romanzo di Walter Veltroni. Lo spunto narrativo è la scomparsa di un professore, dopo che i brigatisti uccidono un suo collega nel cortile dell’università. L’incipit è ambientato nella Roma del 1981. Le due figlie del professore che non ha lasciato tracce di sé, Caterina e Barbara, erano poco più che decenni all’epoca dei fatti. L’azione si sposta nel 2011, con le due sorelle che hanno rispettivamente i volti di Margherita Buy e della stessa Nicchiarelli, mentre prendono la decisione di mettere in vendita la casa al mare di famiglia. Riaprire una vecchia abitazione abbandonata è come intraprendere un viaggio nel passato, e così Caterina si ritrova a rispondere a un vecchio telefono che squilla con la spina staccata: alzando la cornetta, si ritrova a parlare con se stessa quando aveva dodici anni. Evidenti sono i richiami a “La voce umana” di Cocteau. Ma, in verità, questo film della Nicchiarelli è una sorta di Frequency dei poveri, un giallo parapsicologico privo di mordente e pieno d’incongruenze. Un infortunio per Margherita Buy, che ci è sembrata smarrita, e non solo tra le nebbie di un passato di una verità mai venuta a galla. Soffermiamoci ora su Alessandro Gassman che debutta dietro la macchina da presa con Razzabastarda, trasposizione cinematografica della pièce “Roman e il suo cucciolo” di Reinaldo Povod. Sceneggiato in coppia con Vittorio Moroni, Gassman cesella il suo film utilizzando un bianco e nero dai forti contrasti per narrarci l’amara parabola di un immigrato rumeno eccessivamente protettivo e violento nei confronti del figlio Cucciolo. Gassman attore è bravo, anche nei suoi momenti di enfasi, mentre la sua regia risulta didascalica e un po’ inerte, a ingrigire un debutto cinematografico coraggioso. I film italiani di “Prospettive Italia” che abbiamo menzionato sono in concorso. Della stessa sezione va pure segnalato qualche documentario fuori concorso. Cominciamo con Carlo!, realizzato dal critico cinematografico Fabio Ferzetti e dal regista Gianfranco Giagni. E’ davvero commovente questo ritratto dell’attore e regista romano Carlo Verdone, un viaggio in un passato che ci riconduce alla tradizione della grande commedia all’italiana di cui Verdone è l’ideale prosecutore, però sempre al passo con i tempi, sempre affrontando argomenti legati all’attualità con l’arte del sorriso e con una soffice malinconia. In uno studio teatrale Verdone si racconta con onestà intellettuale, senza rinunciare all’ironia di sempre. Apre lo scrigno dei ricordi, e così vecchi materiali in super8 trovano nuova luce in questo documentario mai celebrativo, per inquadrare l’infanzia e l’adolescenza di Carlo, intrecciando il privato con il pubblico, recuperando il succo amarognolo delle sue commedie, che alcune volte risultano feroci, come Compagni di Scuola. Con le preziose testimonianze dei suoi compagni di viaggio di lungo corso come Eleonora Giorgi e Margherita Buy e di nuovo conio come Marco Giallini, con i contributi di amici d’infanzia e di critici come Marco Giusti e Goffredo Fofi, i registi di questo omaggio raccontano le trasformazioni del costume degli italiani utilizzando gli umori che provengono dagli affondi dell’oggetto della loro analisi. Quello di Verdone diventa così un percorso esistenziale, artistico e anche poetico che ci mostra la casa vuota d’infanzia sotto i portici e le stanze della memoria dove tutto ebbe inizio. Un bel documentario dal taglio ironico e umano dedicato al migliore Verdone che non smetteremo mai di amare. L’ironia emerge anche in un altro documentario, Giuliano Montaldo – Quattro Volte Vent’Anni, di Marco Spagnoli, ritratto passionale ed elegante del regista genovese. Gaetano Di Vaio è regista, produttore, attore e scrittore. Di origini napoletane, ha iniziato la carriera di attore nella compagnia teatrale di Peppe Lanzetta. La voca roca e profonda è una caratteristica del suo essere attore, il suo impegno è quello di denunciare i paradossi di una città come Napoli e le sue periferie. Come regista, abbiamo visto Interdizione Perpetua e come produttore L’Uomo Con il Megafono di Michelangelo Severgnini. Quest’ultimo è un ritratto di Vittorio Passeggio, originario di Scampia, dove un piccolo grande uomo dai valori sani combatte da solo le terribili ingiustizie della Camorra. Due documentari che ci fanno riflettere su una difficile capitale del Sud, Napoli, dove vivere vuol dire rimettersi in gioco giornalmente contro un potere incontrollabile. Dopo questa parentesi sui film italiani, torniamo al concorso e ai premi che sono stati assegnati. Il Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film è andato a Marfa Girl di Larry Clark. Si tratta di un amaro spaccato della provincia americana, Marfa, nome di una cittadina situata in Texas. Clark prosegue il suo percorso artistico sulle inquietudini degli adolescenti, consumato fin dai tempi del suo esordio con Kids. Questa volta i giovani non vivono nella Grande Mela, il loro disagio è inscritto in uno scenario marginale dove ogni cosa appare irrimediabilmente stagnante. Bel film, non manca sesso, droga e una colonna sonora rock con accenni punk e hardcore. Con un’acquisita maturità stilistica, Clark fotografa con onestà il vuoto del paesaggio prescelto, scolpisce con uno sguardo d’artista disilluso i corpi dei suoi personaggi e definisce con precisione gli spazi interni. Adam è un ragazzo di sedici anni problematico: da un lato c’è il rapporto sfatto con la madre, dall’altro c’è una ragazza più grande di lui, madre di un bambino avuto da un suo amico chiuso in prigione e con cui va a letto. Nel mezzo c’è la sua coetanea fidanzata, smarrita quanto lui. Ma Clark punta il dito sui metodi della polizia di frontiera, tratteggiando la psicologica ambigua e perversa di un rappresentante della legge di nome Tom che insidia la madre di Adam. Seppure dotato di un finale aperto alla speranza, il film di Clark è un racconto di formazione che esibisce senza remore il proprio assunto: siamo una società votata al nulla. Un altro film che esplora la provincia americana è The Motel Life, diretto da Gabriel e Alan Polsky, produttori al loro debutto dietro la macchina da presa. Interamente girato in Nevada e ambientato nella fatiscente periferia di Reno, è una commovente storia di redenzione e di fratellanza che si è portato a casa il Premio del Pubblico e quello per la migliore sceneggiatura. Il Premio per la migliore interpretazione maschile è andato a Jérémie Elkaïm per Main dans la Main di Valérie Donzelli, un racconto leggero e profondo, molto musicale, che narra di un amore tra due persone caratterialmente differenti. Un film squisitamente francese che conferma le doti non solo attoriali della Donzelli, arrivata alla sua terza regia. I due film più belli del concorso, per noi, giungono dalla Russia: sono Spose Celesti dei Mari della Pianura di Alexey Fedorchenko ed Eterno Ritorno: Provini di Kira Muratova. Dopo Silent Souls, Fedorchenko prosegue il proprio discorso sulle infinite etnie che popolano la Russia. Questa volta compone dei ritratti femminili, 23 in tutto: donne che appartengono al popolo dei Mari, le spose celesti del titolo, il cui racconto consente al regista di esplorare le antiche tradizioni di un popolo, come la preghiera collettiva nei boschi. In questo fiabesco paesaggio della Russia centrale, dove si ergono chiese e monasteri, si svolge un film dall’affascinante realismo magico, una sorta di contemporaneo “Decameron”: un ammagato caleidoscopio di volti e di corpi femminili, un acuto bassorilievo che rende prodigioso il talento di uno dei più importanti cineasti russi contemporanei. La veterana Muratova ci regala invece un film che merita di essere studiato nelle scuole di attori. Se la recitazione è l’arte di rendere percepibile l’invisibile, questo film ne esibisce l’evidente prova, nel gioco speculare di una narrazione che ricomincia ad libitum, sempre dallo stesso punto. E’ un abbagliante bianco e nero a dare smalto al sempiterno conflitto dei sentimenti. Ci sono un lui e una lei, due vecchi compagni di scuola. Lui è alla ricerca di una confidente, vive nell’incertezza di continuare ad amare la moglie oppure di proseguire la relazione con la giovane amante. La prova attorale è il crisma di questo capolavoro della messa in scena, che acquista un rilevo emotivo sempre in crescendo fino a quando il bianco e nero dona spazio al colore. Con una leggerezza e disincanto che è merce rara nel panorama cinematografico di oggi, la Muratova con i suoi provini ci parla di un film non finito, di un regista deceduto poco prima delle riprese. La grande regista sviluppa tutto “in abisso”: sono i provini il suo film, un infinito protendersi nella ripetizione di un possibile compiuto, il mutamento di prospettiva, dell’ordine degli attori, mentre il significato dell’espressione dei sentimenti rimane sempre incompiuto ma universale. E’ un film da vedere e rivedere, per coglierne le sfumature impercettibili e della messa in scena impeccabile, il tutto giostrato con superiore, sapiente ironia. Chiudiamo questo percorso dedicato al Festival di Roma segnalando l’interessante sezione “Alice nella città”. E’ stato presentato fuori concorso il lungometraggio d’animazione, targato Disney, Ralph Spaccatutto diretto da Rich Moore, un gioiello che rende omaggio ai videogiochi degli anni ’80. Come evento speciale abbiamo visto Kirikou et les Hommes et les Femmes, terzo capitolo delle gesta del neonato africano destinato a non crescere, firmato come sempre Michel Ocelot, con una sceneggiatura molto più articolata e compatta del precedente capitolo. Tra gli altri ricordiamo un film italiano che si è aggiudicato il Premio della Giuria, Pulce non c’è, opera prima di Giuseppe Bonito, una struggente e sconvolgente storia vera, quella di una bambina autistica di nove anni che comunica attraverso la musica (Bach e il tango). Si chiama Margherita, ma per la sorella maggiore, la tredicenne Giovanna, è Pulce. E’ attraverso lo sguardo di Giovanna che viene raccontata questa storia: è un calvario familiare quando la piccola Pulce viene tenuta in custodia in una comunità perché il padre (interpretato da Pippo Delbono) è sospettato di pedofilia. Senza pietismi o concessioni melodrammatiche, l’esordiente Bonito ci narra questa storia difficile con rispetto, partecipazione e con sorprendente asciuttezza. |