Che il suicidio sia ancora un argomento tabù, almeno nella provinciale italietta in cui ci troviamo ad arrancare (non solo culturalmente parlando) lo dimostra la diatriba censoria, fortunatamente rientrata, che ha minacciato da noi il divieto ai minori di anni diciotto per quest’ultima, magistrale fatica del francese Patrice Leconte, il suo primo film d’animazione, La Bottega dei Suicidi. Ne è passata di acqua sotto i ponti dai rigurgiti nichilisti di Drieu La Rochelle (“Fuoco fatuo”) e dalle malinconie canterine del sommo Mimmo Modugno (da “L’uomo in frack” all’inno estatico di “Meraviglioso” dove si evoca esorcisticamente la “joie de vivre” utile a scongiurare soluzioni estreme). Il tema è fra i più seri e irrisolvibili, dato che riguarda la tenuta della stabilità emotiva di ogni singolo individuo, la gradazione di quella forza interiore che si oppone alle avversità del vivere e, in senso lato, l’incipiente fatiscenza della cosiddetta qualità della vita nella contemporanea società alienata. Difficile è operare distinzioni tra latitudini, in questo caso, visto che il fenomeno riguarda l’Oriente come l’Occidente: il suicidio è pratica diffusa, aumentata in 45 anni del 60%, oltre ad essere la decisiva causa di morte del nostro povero pianeta. Lo testimonia lo scioccante documentario The Bridge che, qualche anno fa, restringeva il campo sul privilegiato teatro di dipartite volontarie in Usa, il Golden Gate Bridge di San Francisco (1.200 suicidi in orari “impossibili” dall’inaugurazione nel 1934). Il fenomeno non risparmia il rutilante mondo dello spettacolo con la lista, continuamente aggiornata, di “Too Young To Die” e di detour imprevedibili come quello di Monicelli e di Tony Scott (anche lui tuffatosi da un ponte a San Pedro). Sebbene sia difficile ironizzare sul cancro dell’anima, genericamente definito “depressione”, a cui mal si oppongono sia rimedi psicoanalitici che farmacologici, la letteratura come il cinema si sono industriati non poco ad opporre l’arma del riso a questa vera e propria malattia sociale che, diciamolo con forza, non necessita sempre di calembour lirici o di sublimazioni più o meno mélo. Fin dal titolo, il cartoon di Leconte echeggia il memorabile racconto in 3 capitoli del grande Robert Louis Stevenson che, nel 1878 con “Il club dei suicidi”, tracciò in caustica forma gialla l’impervio incrocio tra volontà e destino che riguarda ogni delitto perpetrato su sé stessi come sugli altri (un modello seguito di recente dal godibile exploit cinematografico franco–belga di Olias Barco, Kill Me Please del 2010).
Si ride a denti stretti anche per questo Le Magasin des Suicides, derivato da un romanzo del letterato e fumettista Jean Teulé (pubblicato in Italia dalle edizioni Vertigo col titolo “Il negozio dei suicidi”). Leconte si è riservato non pochi ruoli per questa sua impresa che, come vedremo più avanti, fa parte integrante del suo percorso autorale: adattatore e sceneggiatore della fonte letteraria, regista e persino autore dei testi delle canzoni utilizzate durante gli squarci onirici che recuperano, alla maniera di Tim Burton, il tema della colpa in forma di musical. La commedia nera ha per baricentro le vicissitudini della famiglia Tuvache che gestisce la macabra bottega del titolo dove campeggia il motto “trapassati o rimborsati”. Un’attività a servizio di chi vuole farla finita con stile e nonchalance: veleno distillato in eleganti boccette di profumo, esose pallottole da trapasso sicuro (ognuna 22 Euro e, se vendute fuori orario, addirittura 35), spade da harakiri e sconti per suicidi di coppie in occasione di San Valentino. Gli affari vanno a gonfie vele per la provata famiglia di bottegai composta da marito e moglie, Mishima e Lucrezia, con prole a carico, Vincent e Marilyn (tutti nomi trasparentemente evocativi). Nucleo familiare triste com’è triste la metropoli in cui è incastonato il negozietto, un contesto ingrigito all’ombra dei grattacieli, inquinato dai gas di scarico di automobili e fabbriche, sovrastato dall’invasione di un’orda di ratti che, nelle prime sequenze, inseguono un malcapitato avventore della bottega pronto a ingurgitare il veleno appena acquistato. In questo scenario da Blade Runner, dove persino i piccioni si lasciano cadere dai lampioni, gli unici divieti per legge sono quelli che proibiscono di gettarsi sotto le auto di passaggio con il rischio di finire multati da defunti. I Tuvache tirano a campare, ovviamente coinvolti dal depressivo andazzo, e questo sino alla nascita del nuovo pargoletto, Alain, che nella culla già sfoggia un sorrisetto contagioso, sigillo di un ottimismo biologico in grado di provocare un’autentica rivoluzione. Recuperando certi motivi del romanzo di formazione, Leconte ci dice quanto sia utile assecondare la propria natura anche quando questa si oppone al dettato dell’educazione familiare: un invito alla tollerante ribellione a cui è bene dare una causa favorendo, nonostante i tempi, il progresso umano, civile culturale dell’umanità. E tutto questo attraverso un film trasgressivo e incisivo, elegante e intellettualmente stimolante, capace di rivolgersi a spettatori occasionali ma anche a incalliti cinefili che apprezzeranno le citazioni dei finti manifesti cinematografici. Manifesti come “Les Zombrés” (dove Leconte fa il verso a se stesso dato che Les Bronzés è una sua famosa trilogia comica popolare in Francia ma inedita da noi) e quello de “La cité de rire” (parodia comica de La Cité de la Peur di Alain Berbérian interpretato dal gruppo dei Nuls di cui facevano parte Alain Chabat e Gérard Darmon, Chantal Lauby e Dominique Farrugia). |