Dimenticate la Milano solare dell’indigesto Benvenuti al Nord e mettete tra una sontuosa parentesi la memorabile metropoli del poetico De Sica–Zavattini del “Miracolo”: questa Milano dipinta con sofferta intensità dal generoso Gianni Amelio de L’Intrepido è uno scenario lunare, umido e pietroso, a indicare la sostanza plumbea di cui è fatta la nostra disastrata contemporaneità. A differenza dei teatri metropolitani di Soldini, l’acidità del paesaggio tratteggiato da questo film (poco compreso all’ultima Mostra di Venezia) sembra evaporare a contatto con gli effluvi di un’idea di cinema che si fa materia purissima, evocando modelli alti con poetica nonchalance. Per questo, la scultura sapientemente trattenuta del regista, lavorando sul copione scritto in coppia con Davide Lantieri, incrocia l’interprete ideale, il funambolico e stralunato Antonio Albanese, ormai abituato (da una folgorante carriera allenata in tv e nelle prove d’autore con Mazzacurati e Avati e Archibugi, oltre che nei calembour del grottesco esasperato di certi suoi simil–cartoon su grande schermo) a dosare con dovizia le geniali gradazioni della sua maschera clownesca. Maschera senza maschera è il suo Antonio Pane, il personaggio “intrepido” di Amelio, un precario “candide” incantevole come il Pozzetto di Burro nel dimenticato film di José Maria Sanchez.
Più Harold Lloyd che Chaplin, Antonio sembra perfettamente integrato nell’infernale società in cui vive, la Milano che si è lasciata alle spalle le etichette dello yuppismo anni ’80: il suo mestiere è quello di fare il rimpiazzo con disinvoltura e competenza, il suo essere intrepido (come uno degli eroi del settimanale a fumetti a cui allude il collezionista Amelio) consiste nell’adattarsi a ogni situazione, guardando tutto dall’alto, come accade nella scena iniziale del film che lo coglie al trentesimo piano di un palazzo in costruzione. Seguendo il suo imperturbabile personaggio, condotto a reagire al licenziamento iniziale con la forza dell’onestà, l’autore de Il Ladro di Bambini sembra qua e là smarrirsi con uno sgomento che si ripercuote sul ritmo complessivo del film (specialmente negli ultimi 40 minuti) e sull’efficacia dei dialoghi molti dei quali risultano sfilacciati. Per il resto, seguiamo con simpatia Antonio alle prese con il boss interpretato dal bravo Antonio Santagata che lo indirizza al mestiere del muratore e dell’attacchino, o dimensioni sconosciute come il mercato generale del pesce, le lavanderie degli alberghi, i depositi di tram o quelli più grandi di automobili da smontare, imponendogli di frequentare una fatiscente palestra che sembra la versione povera di quella vista in Million Dollar Baby di Eastwood. L’utopia di Antonio sembra infrangersi all’interno del frastagliato territorio di un mercato del lavoro che, nel nostro Paese, si alimenta nell’illecito e nella burocrazia coatta che favorisce furbetti e furbastri. Ma lui resiste, nonostante sia stato abbandonato dalla moglie (interpretata da Sandra Ceccarelli), riuscendo a gestire il figlio, Ivo, ragazzo problematico che suona divinamente il sassofono. A dargli forza c’è una ragazza malinconica quanto lui, Lucia, che poi finirà suicida. Ad Antonio non resta che proseguire il suo speranzoso pellegrinaggio nel deserto di una metropoli sconvolta che simbolizza il cul de sac culturale, sociale ed etico in cui versa la nostra povera Italia. Anche se neutralizzato dai difetti sopra accennati, L’Intrepido ha il merito di proporre una prospettiva nuova al trito argomento sulla deriva attuale, presentando una Milano figurativamente vigorosa e screziata, grazie alla fotografia di Luca Bigazzi, commentata dalla partitura discreta del fedele Franco Piersanti, impreziosendo il tutto con l’inedita e fresca presenza di esordienti come Gabriele Rendina e Livia Rossi. |