Le Vie del Cinema da Cannes a RomaXVII EdizioneAmour (Concorso) La lepre del film di René Clément non ha mai smesso di correre, anzi il suo campo professionale si è allargato. Dopo la tragica morte della sfortunata figlia Marie, il grande attore Jean-Louis Trintignant si è allontanato dal cinema per dedicarsi al teatro con alcuni recital di poesie. Le antiche stagioni felici del cinema italiano l’hanno immortalato in capolavori assoluti, Il Sorpasso di Dino Risi e Il Conformista di Bernardo Bertolucci, per fare solo due esempi. Anche l’esordio di Emmanuelle Riva si deve all’italiano Gillo Pontecorvo in Kapò, che le consentì un fulminante tragitto fino al Resnais di Hiroshima Mon Amour. Queste due leggende viventi si ritrovano a recitare in coppia grazie all’intuizione di Michael Haneke che li ha voluti per il suo Amour (meritata Palma d’oro, la seconda del regista austriaco, dopo quella vinta nel 2009 per il magnifico Il Nastro Bianco). Il cast di quest’ultima sua fatica è impreziosito dalla presenza di Isabelle Huppert, che con Haneke aveva dimostrato un’intesa perfetta. Haneke è uno di quegli autori che sanno essere lucidi e impietosi, il suo cinema si può amare o meno, ma non lascia indifferenti. Non si può che riconoscere, comunque, la capacità di quest’autore di sondare con lucidità le tematiche più flagranti e rappresentative del detour contemporaneo, di una società occidentale alienata e prigioniera di una violenza esplosiva e irragionevole. Nel suo cinema il bianco risulta abbacinante come il nero, la neve raggela paesaggi e coscienze, ogni luce richiama la tenebra e non c’è nessuna ansia di redenzione, come nei film di Bergman. De Rouille et d’Os (Concorso) Clint Eastwood per il suo Million Dollar Baby aveva preso spunto da uno dei racconti di F.X. Toole per consegnare alla storia il suo acuto e disincantato melodramma fordiano. Il francese Jacques Audiard si è invece ispirato al giovane scrittore canadese Craig Davidson per il suo ultimo De Rouille et d’Os, portando sullo schermo una delle storie d’amore più intense viste di recente. Davidson ha pubblicato con il titolo di “Ruggine e ossa” (da noi uscito per Einaudi), tre racconti sull’universo della boxe finemente cesellati. L’idea per Audiard è stata quella di far incontrare sullo schermo i due protagonisti principali e di raccontare una storia d’amore assente nel libro, facendo così incrociare personaggi che fanno parte di diversi racconti. Dupã Dealuri (Beyond the Hills) (Concorso) Il cineasta rumeno Cristian Mungiu con il suo ultimo film, Beyond the Hills, si è portato a casa due premi importanti: quello per la migliore sceneggiatura e per la migliore attrice assegnato ex aequo alle due protagoniste, Cosmina Stratan e Cristina Flutur. Mungiu si conferma, dopo la Palma d’oro 4 Mesi, 3 Settimane e 2 Giorni, uno dei cineasti più stimolanti degli ultimi anni, capace di conferire una densità speciale e rigorosa ai suoi film, una geometria aberrata che gioca abilmente sul divenire delle proporzioni di paesaggi interiori e fisici, inscritti nella storia del nostro tempo. Quest’ultima sua prova, nonostante la durata (due ore e mezza che però ammaliano e sorprendono), conferma la tenuta delle sue simmetrie flagranti e sospese, l’acutezza del suo talento di analista che gioca con la teatralità del reale facendo però sempre cinema. Un film, quello di Mungiu, che avrebbe meritato il premio per la migliore regia, andato all’estetizzante ed estenuante Post Tenebras Lux di Carlos Reygadas. Moonrise Kingdom (Concorso) Il cinema di Wes Anderson è leggero e profondo, colto e intelligente. Ogni suo film è un tassello che si arricchisce di storie morali, acute e frizzanti, raccontate con un’eccentricità che si concentra sui noduli irrisolti dello status contemporaneo. In questo suo ultimo Moonrise Kingdom (che ha aperto Cannes) il regista mostra tutta la propria vivacità intellettuale, a cominciare dalla colonna sonora che mescola brani di Benjamin Britten, Hank Williams, Françoise Hardy e persino di Mozart. La sregolata, ironica energia propulsiva che attraversa il suo cinema resta però geometricamente organizzata e lucidamente allusiva come nei film di Keaton e di Jerry Lewis. La fantasia vitalistica di Anderson ci conquista fino all’ultima inquadratura (a proposito: non perdetevi i titoli di coda di Moonrise Kingdom, invitando gli esercenti a non accendere prima le luci in sala). La vicenda è incorniciata nell’estate del 1965, l’ambiente è un’isola situata vicino la costa atlantica del New England. Si racconta la storia d’amore di due dodicenni, Sam Shakusky (Jared Gilman), giovane scout orfano che per la sua inadeguatezza e maturità coatta viene detestato dai suoi compagni, innamorato con successo di Suzy (Kara Hayward), una ragazzina dagli occhi tristi che ama rifugiarsi nella letteratura fantasy. Sam e Suzy, per vivere liberamente il loro sentimento, decidono di rifugiarsi nel ventre più impervio della foresta. Paradise: Love (Paradise: Liebe) (Concorso) Il bisogno d’amore è un’onda anomala che spesso allaga la superficie fatiscente della nostra società alla ricerca di valori, già invasa dal morbo dell’alienazione consumistica e da un’irrimediabile mal du vivre. Teresa, obesa donna di mezza età, è l’emblematica protagonista del nuovo film del regista austriaco Ulrich Seidl, Paradise: Love. A interpretarla è la gigantesca (non solo fisicamente) Margarete Tiesel che presta il proprio debordante aplomb a questa storia di turismo sessuale ambientata in Africa. Seidl è un cineasta che ama le provocazioni: lo dimostra Canicola (Premio della giuria alla Mostra di Venezia del 2001), con al centro personaggi dalla fisicità anomala la cui interiorità sfatta, simile ai loro fisici, viene esaminato dal regista con piglio da entomologo. La stagione estiva, nei film di Seidl, è il contenitore climatico ideale per dare corpo e calore alla rappresentazione del disfacimento emotivo, sessuale e sensoriale, alla deriva nichilistica e misantropica di figure umane che non riescono più a nascondere la cattività del proprio stato. Il tutto è raccontato con straniante sguardo da implacabile analista, con uno stile raggelante che inquadra l’impudicizia di un disagio esistenziale che sconfina nella nevrosi e nella cattiveria all’interno di un microcosmo di una quotidianità monotona e alienante. Illusioni bruciate e pulsioni represse in un puzzle emotivo che continuamente si scompone alludendo al vuoto della contemporaneità ammalata. Così seguiamo l’amara vicenda di Teresa, madre di una figlia adolescente che rimane affidata alla sorella perché la nostra possa raggiungere le spiagge del Kenya alla ricerca di un amore effimero. Esponendosi al commercio coatto del corpo, Teresa tenta, con un esorcismo economico, di pagare il prezzo delle proprie amarezze, e così colleziona solamente disillusioni. L’amore mercenario è un viaggio di mortificazione, un sentiero impervio che il film attraversa regalandoci squarci d’intollerabile desolazione come nella triste sequenza del compleanno di Teresa. The We and the I (Quinzaine des Réalisateurs) La geografia del mondo si fa piccola assumendo le dimensioni di un autobus. Alcuni giovani studenti di un liceo del Bronx impegnati nell’ultimo corso del proprio impegno comune prima delle vacanze estive. Una storia che ci racconta il regista Michel Gondry, dopo la parentesi blockbuster di The Green Hornet, nell’ultimo The We and the I. Bassorilievo vivido e livido il cui tema è il malessere generazionale sullo sfondo dell’annoso stato di crisi del nostro comune contemporaneo. E così non si può che pensare a Bus in Viaggio di Spike Lee. Dal canto suo, Gondry sa come far lievitare la materia del racconto, mescolando dramma e commedia, un sapore agrodolce che diventa amaro sul finale, quando il viaggio arriva alla meta e ai giovani protagonisti tocca fare i conti sui nodi esistenziali ancora tutti da sciogliere. Michael, Raymond e Jonathan fanno i bulli per vanto, esorcizzando così l’angoscia incombente, e le loro bravate riprese per videofonino (quello della sbarra utilizzata per entrare in metropolitana) diventano il pretesto, utilizzato dal regista, per un effetto rewind che s’intreccia al racconto. L’ingegnosità di queste burle è indizio di un’intelligenza che gira a vuoto e che, forse, meriterebbe un ascolto più concreto. Camille Redouble (Quinzaine Des Réalisateurs) L’adolescenza è l’età dell’incertezza. E lo è anche quando si recupera attraverso la memoria, struggente nel rievocare i frammenti lieti e quelli amari di un passato fatto soprattutto d’inconsapevolezze. La scuola è il recinto o la gabbia di questo crocevia necessario col suo fardello d’illusioni perdute e di pulsioni animate e poi spezzate, quando il tema primario è l’attesa della maturità, tutta da conquistare. La regista e attrice Noémie Lvovsky propone una sua riflessione sulla fine di un amore. Un amore nato sui banchi di scuola che diventa col tempo sentimento votato alla durevolezza quando dal fidanzamento si passa al matrimonio. La Lvovsky, nel suo film, è la quarantenne Camille legata a Éric (Samir Guesmi), conosciuto a sedici anni nella stessa scuola divenuto in seguito suo marito. Un tragitto di affinità elettive che, per la protagonista, con una figlia adolescente a carico, si sfalda quando il partner di una vita s’innamora di una donna più giovane. In una fatale notte di capodanno, durante una festa, Camille per il troppo alcol sviene, proiettandosi negli anni ’80, ai tempi della scuola. Una sedicenne nel corpo di un’adulta, occasione metafisica per un transfert che offre spazio e tempo alla scena primaria, alla genesi di un rapporto destinato al trauma di una conclusione dolorosa ma che deve essere rivissuto, non per cambiare gli eventi, ma per inciderli nuovamente, con rinnovata consapevolezza. Naturalmente, il pensiero va subito all’ironico sconfinamento di Peggy Sue si è Sposata. La rappresa malinconia di Coppola in questo bel film della Lvovsky si trasforma in lancinante amarezza, lasciando spazio a un’inevitabile ironia nel trattare il sentimento stesso del morire. Camille rifiuta la possibilità di metamorfosi ma scommette su una possibile curvatura del proprio rapporto con la madre, recuperando l’esistenziale necessità dei propri palpiti amorosi e degli adolescenziali abbandoni durante l’estasi delle feste di gruppo: vuole comprendere la dinamica irresistibile che lega il tempo di un amore, dell’amore decisivo, quello che unisce con l’altro in corpo unico (anima compresa), il sogno che rende pieno ogni vuoto e che poi può sciogliersi come neve al sole, cancellando l’illusione di un destino dal divenire irresistibile. Le presenze vibranti di Mathieu Amalric, Denis Podalydès e Jean-Pierre Léaud siglano l’incontro con una storia semplice e rivelatoria di rovesciamenti prospettici, legandosi inscindibilmente alla grande tradizione della nouvelle vague francese. Au Galop (Semaine de la Critique) L’elaborazione del lutto non conduce mai a una pacificazione, rendendo tangibile la fragilità di ogni sentimento. I sensi ci ingannano. Ogni apertura emotiva prepara le sue stesse chiusure e ogni storia d’amore, nel suo annebbiamento, è sempre una storia d’amour fou, come ci ha insegnato la saggezza superiore di Truffaut, esponendo le dinamiche vitali e mortuarie di tanto dare e avere che è il crisma dell’esperienza umana. L’attore Louis-Do de Lencquesaing offre il suo intelligente carisma a un passaggio dietro la macchina da presa, conducendo sul set la figlia Alice, dopo aver diviso con lei l’esperienza dell’intenso Il Padre dei Miei Figli: è il tracimare di un legame familiare nel fare cinema, motivato da una speciale ansia di verità. Per questo suo esordio registico Au Galop, egli si cuce addosso il ruolo dello scrittore Paul mentre Alice incarna come doppio il ruolo della figlia Camille, soggiogata dai primi turbamenti adolescenziali, e da un apprendistato liberatorio che la conduce al primo amore. Paul è un quarantenne divorziato e afasico, segnato dall’irrisolto rapporto col padre defunto, in questo simile al fratello François (Xavier Beauvois), mentre la madre, la borghesissima Mina (Marthe Keller), ha iniziato a sprofondare in una demenza irrimediabile. Tutto questo fino all’incontro con Ada giovane promessa sposa con figlio a carico che spinge Paul in un cunicolo illuminante, mercé una relazione clandestina. A incarnare la vitalità ammalata di questo personaggio di donna divisa troviamo Valentina Cervi, certamente valorizzata in questa esperienza d’oltralpe col regista–attore, com’era accaduto a Chiara Caselli nel già citato Il Padre dei Miei Figli. I risvolti psicologici dei personaggi, tratteggiati con convinzione, trovano riverberi ideali nel decor degli ambienti e nell’intelligenza dei dialoghi (caratteristiche, queste, più francesi che italiane). Si può tranquillamente salutare con fiducia, l’esordio registico di Louis-Do de Lencquesaing, ammirevole per rigore e acutezza in questa rappresentazione di smarrimenti sfociati nel caos di microcosmi familiari fatiscenti, da sempre luoghi generatori di angosce esistenziali che richiamano il peso di un passato doloroso e ammonitorio. Ancora una sfaccettatura di un disagio umanissimo raccontato come un apologo sull’illusorietà dei legami duraturi, ai confini di un’alienazione contemporanea che lascia solo spazio a ripetute, eterne interrogazioni sulla natura stessa dei sentimenti e delle pulsioni. Woody Allen: A Documentary (Cannes Classic) Se To Rome with Love costituisce, di fatto, il dead point della filosofia stessa del cinema alleniano, questo Woody Allen: A Documentary di Robert Weide ha il merito di condurci alle origini e all’essenza di un’esperienza irripetibile. Il tessuto del documentario è tradizionale, tra immagini d’archivio, interviste ed evocazioni in prima persona. L’oggetto è il genio di un cineasta–scrittore che col suo umorismo ha saputo rovesciare il guanto della superficie culturale della sua America, mettendo alla berlina tutte le sue certezze (compresa quella della psicoanalisi come terapia), giocando sulla prorompente fisicità della parola alla fratelli Marx, sulla sregolatezza dei controtempi comici, inquadrando la decadente bellezza di New York e recuperando il ritmo stesso di un vissuto che ha bisogno disperato d’ironia per non consegnarsi allo smarrimento e al vuoto, a cui pure non si può che alludere, giocoforza. Un concettualismo molto jazz qui esemplificato nell’autoironia sorniona dispensata da Allen stesso quando si rappresenta, parlando dei suoi film, dei suoi libri e della sua fortunata parabola di divo anomalo, segnato dall’irrinunciabile sentimento ebraico, peccato originale che è anche la sua salvezza. Un ritratto asciutto e quanto è possibile veritiero, svolto anche attraverso la voci della sorella e della tata di Allen che raccontano le sue precoci inquietudini creative che trovarono sbocco, in adolescenza, nei primi articoli redatti per varie testate, e poi nei copioni comici che dal teatro preparano il suo ingresso nel cinema. Il privato delle relazioni di Allen con le donne (con il côtè di ossessioni erotiche e familiari) si condensa nella testimonianza di Diane Keaton che propone un parallelo tra realtà e finzione attraverso spezzoni interpretati col partner, fino a evocare la deriva turbolenta della relazione con Mia Farrow e del successivo matrimonio con la di lei figlia. Nel sottolineare il legame tra il cinema di Allen e quello dei suoi maestri riconosciuti (innanzitutto, Bergman e Fellini), il documentario analizza l’inquietudine stilistica dell’autore col soccorso delle parole di Martin Scorsese, Larry David, e della sua ultima musa, Scarlett Johansson. Più che in altri documentari simili, questo di Weide ha il merito di mettere in rilievo, con buona sintesi, la figura di Allan Konigsberg, l’uomo che volle farsi Woody Allen, l’umorista disincantato che non ha mai nascosto la verità e l’affanno di fare cinema, ma che è rimasto in trincea, a sfidare il tempo. Sightseers (Quinzaine des Réalisateurs) L’agghiacciante visione di una contemporaneità ammalata. E’ la parabola, adatta ai tempi che corrono, del regista britannico Ben Wheatley che, dopo Down Terrace e Kill List, compone con Sightseers una black comedy visionaria e sregolata, utile a segnalarlo come presenza anomala, ammalata di sperimentalismo, nel panorama del cinema attuale, tendente all’ordinario. Della follia si può ridere, seppure a denti stretti, rilevandola come una variazione sul tema dell’umana alienazione di cui tutti noi, nessuno escluso, siamo vittime e carnefici. La coppia di trentenni, Chris e Tina, si presenta in tutta la sua angosciante normalità (lei forse un po’ segnata dall’incombente figura della madre). I due vanno in vacanza insieme, in giro per l’Inghilterra a bordo di un banale camper finché, durante una manovra a marcia indietro, investono involontariamente un poveraccio fino a stritolarlo. La conseguenza dell’incidente è un’incipiente pulsione omicida sfociata nella coazione a ripetere. Chris conquista a poco a poco il gusto paranoico di far fuori campeggiatori ritenuti inopportuni e adolescenti disturbatori. E’ un crescendo delittuoso che svela le proprie radici nella frustrazione da aspirante scrittore in cerca d’ispirazione per Chris, mentre per Tina conta molto la mancata elaborazione della traumatica e accidentale perdita del cagnolino Poppy che la conduce a sottrarne un altro a una coppia di campeggiatori incrociati strada facendo. La sequenza dei piccoli omicidi arriva presto al suo zenit, liberandosi da ogni causalità: lungo l’autostrada, anche Tina uccide solo per il gusto di farlo. Le Repenti (El Taaib) (Quinzaine des Réalisateurs) Il Premio Label Europa Cinemas è stato meritamente assegnato all’algerino Le Repenti del regista Merzak Allouache. Si tratta di una discesa agli inferi che ha per teatro l’Algeria di oggi, al centro da vent’anni di una guerriglia sanguinosa e inconcludente che ha trasformato traumaticamente la vita collettiva e individuale, producendo smarrimento e dolore, miseria accecata da furore incontrollato e un caos dove le vittime si confondono con i carnefici. Allouache descrive la deriva della sua comunità, cesellando la sua sceneggiatura per comporre un crescendo fino al drammatico finale. Il patto proposto al protagonista Rachid, per l’amnistia che lo affranca, prevede che egli rinneghi il proprio passato. E così il giovane, anziché tornare al villaggio, si trasferisce in città, lontano da chi vorrebbe fare i conti con lui per vicende lasciate in sospeso. Durante il suo nuovo lavoro di barista, Rachid intreccia un dialogo con un farmacista di buona volontà che deve però affrontare giornalmente l’indigenza. A poco a poco il giovane viene a conoscenza che la figlia dell’uomo è stata prima rapita e dopo uccisa dai terroristi (episodio che è all’origine della sua separazione): il piano conseguente, studiato a tavolino, condurrà il progressivo drammatico detour. Con Le Repenti il regista Allouache ci regala un film per nulla rigido e a tesi, emozionante come un thriller e che, grazie anche all’ottima resa degli attori, offre una rappresentazione credibile degli squarci sociali e psicologici provocati da una condizione di guerra civile in un Paese alla ricerca di una propria redenzione. |