“Abbiamo dovuto affrontare la crisi con qualsiasi valore ci riuscisse di mobilitare: vale a dire con nessun valore, salvo quello che ci viene dalla coscienza dell’assurdo in cui viviamo”. Così Albert Camus e la generazione di Albert Camus (una “generazione interessante”, la definì egli stesso una volta) si ritrovarono a confrontarsi con l’orrore della Storia, con quel Novecento che diede corpo e misura alla personificazione stessa della malattia dell’Occidente attraverso due emblematiche figure di tiranni, Hitler e Stalin. Anche se la crisi di cui ancora oggi Camus ci parla, attraverso i suoi scritti sempre utili e urgenti, è l’eterna crisi dell’uomo, oggetto della conferenza del 1946 di cui sopra abbiamo riportato una citazione: una crisi irrisolta con cui ci ostiniamo a fare i conti, giorno dopo giorno, a confronto con le disparità sociali ed economiche, con le sempre più sottili e implacabili ingiustizie dei poteri forti che guidano le società globalizzate. A dominare i destini incrociati degli individui e dei popoli sembra esserci, oggi come ieri, quel vizio umano contro il quale intellettuali come Camus hanno sempre combattuto: l’indifferenza. Il tema dell’indifferenza, del motore di guerre e di conflitti collettivi come di lutti e delitti privati, ha dominato l’opera dell’autore di “Lo straniero”, morto tragicamente in un incidente d’auto il 4 gennaio del 1960 a soli 47 anni. E’ proprio in quel romanzo breve e tagliente che Camus dà corpo alla metafora centrale della sua filosofia, narrando il vortice nullificante dell’esistenza di un impiegato condotto dall’afasia a compiere un delitto inutile (da “Lo straniero”, Luchino Visconti trasse un film concentrato e didascalico con un gigantesco Marcello Mastroianni). Parliamo, dunque, dello scrittore che più di chiunque altro, nella seconda metà del secolo scorso, ha raccontato con lucido pessimismo la deriva nichilista della nostra epoca e, nel contempo, ha sollevato le ragioni della ribellione ad essa.Dopo la sua prematura scomparsa, la figlia Catherine, grazie a un meticoloso lavoro filologico ha dato alle stampe nel 1994 il suo estremo manoscritto autobiografico incompiuto, Il Primo Uomo, divenuto spunto del più recente film di uno dei registi italiani più sensibili e coraggiosi, Gianni Amelio. Per quest’ultimo, la perla letteraria dello scrittore che ha inventato il concetto di “assurdo” non va considerata un “incompiuto ma l’espressione piena e coerente del pensiero di Camus, in linea con le sue opere più alte. E solo una lettura superficiale potrebbe immaginarlo come un racconto nostalgico rivolto al passato”. Così Amelio si confronta con la qualità poetica e l’esperienza umana di Camus. Lo fa con un film solo apparentemente lineare che, dopo una lavorazione impervia e un’eccellente accoglienza da parte della critica internazionale presente al Festival di Toronto dell’anno scorso, giunge finalmente nelle nostre sale. E’ un film che colpisce, svelando la propria essenza vitalisticamente crepuscolare, sin dalla sequenza d’apertura ambientata in un cimitero dove le lapidi dei caduti durante la Grande Guerra evocano l’orizzonte novecentesco entro il quale si sviluppa la vicenda. Tre periodi (il 1957, il 1924 e il 1913) che si riflettono l’uno sull’altro, frammenti taglienti dell’autobiografia di un apprendistato esemplare. Innanzi tutto, un viaggio nella memoria identitaria di un Paese–simbolo, l’Algeria, del suo travagliato passato ancora oggi bruciante. Quel popolo l’indifferenza l’ha subita, da parte del mondo allora diviso in blocchi contrapposti, quando ha dovuto da solo combattere per l’indipendenza, oppressa (fin dal 1830) dalla vocazione colonialista della Francia, durante una guerra cominciata nel 1954 e finita nel 1962. Un popolo di stranieri in patria, immerso nel conflitto etnico, costretto a elaborare lutti e dissociazioni, una serie infinita di tensioni collettive che come sempre si riverberano nell’esperienza privata. Il magnifico romanzo di Camus ci racconta di questo spaesamento e Amelio lo segue, con pudore e intensità come quando, in un passaggio del suo film, evidenza l’essenza del conflitto sociale, culturale e politico in atto attraverso l’episodio di una lite in classe tra Jacques Cormery, il protagonista ancora bambino, e il suo compagno di scuola di origine araba. Il cineasta calabrese attiva così quella prospettiva di sguardo rivolta al mondo degli adolescenti che fu del grande Luigi Comencini, identificando e identificandosi con i tremori e i sussulti di Camus bambino. E lo fa con un rigore e una nitidezza commoventi. Jacques, l’alter ego di Camus, divide la sua infanzia con due donne, Catherine la madre analfabeta e la severa nonna, interpretate rispettivamente da una dolce, solare e malinconica Maya Sansa, e da una ieratica Ulla Baugué. Fondamentale, nella vita del piccolo, è l’incontro con il maestro Bernard (un incantevole Denis Podalydès) che farà di tutto perché egli non abbandoni gli studi. Ma Jacques saprà attivare da solo la propria reazione e la sua arma diventerà la parola, fin da quando si ritroverà a lavorare in una tipografia. Nel 1957, periodo rovente per l’Algeria, il protagonista di Il Primo Uomo è già uno scrittore affermato, vincitore di un Nobel, quando da Parigi torna in patria per una conferenza in un’università in subbuglio e per ritrovare i luoghi dell’infanzia, incontrando l’anziana madre e il fragile, svagato zio Etienne, ridotto a dividere una solitudine coatta con le sue sigarette. Ma il trepidante Jacques (interpretato da adulto da uno straordinario Jacques Gamblin) è soprattutto alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto perché morto durante la Grande Guerra sul fronte franco–tedesco: il suo è un nostos esistenziale, un dialogo intimo e struggente con un passato svuotato che è necessario colmare. Quel “primo uomo” è l’identità originaria su cui ognuno di noi fonda la propria maturità, a patto che la si sappia rintracciare. E’ Camus ed è Amelio, capace di mescolare il passaggio emotivo della propria infanzia vissuta nell’indigenza e nella fatiscenza della sua Calabria a quello della natia Algeria del protagonista. L’acutezza passionale di questo film ci regala sequenze evocative, come quella del piccolo Jacques che sbircia il maestro, dietro la lavagna mentre è in punizione, o come quella dell’algerino, ex compagno di scuola del protagonista, che va a trovare il figlio terrorista tra le sbarre, in un confronto che sintetizza mirabilmente il travaglio squassante di un detour storico, sociale e umano. Amelio non rinuncia a illustrare il contesto nel quale la vicenda camusiana si svolge, l’aspra battaglia ideologica tra le autorità coloniali e il Fronte nazionale di liberazione algerino: nella sua analisi il passato guarda al presente, con intelligente spirito allusivo. Che il dolore generi l’afasia ci è chiaro quando, in questo film, vediamo Jacques bambino leggere le didascalie di un film muto alla ruvida nonna (mentore della sua dura formazione), entrambi seduti in una sala cinematografica. La cecità si fa metafora di prosciugamento interiore, di una severità sacrificale che è la conseguenza delle ingiustizie subite, come quando l’anziana donna costringe il nipote a camminare a piedi scalzi facendo a meno delle scarpe che egli ha perso. Attraverso il suo minimalismo poetico, Amelio recupera lo spirito autoanalitico del romanzo di Camus, nel risvolto di un conflitto che è anche generazionale. Al regista piace indicare più che sottolineare e in questa prova affida la tessitura del suo bassorilievo all’apporto della colonna sonora del fedele Franco Piersanti, e alla fotografia di Yves Cape, calda e contrastata, evocante i chiaroscuri illuminati di tutti i Sud del mondo, patria ideale di Pasolini. E c’è pure la levità feroce di Truffaut in questo insistere sul punto di vista del piccolo Jacques, testimone d’involuzioni e avido di evoluzione, contemplativo eppure risoluto nell’accogliere le lezioni di vita della nonna e della madre. Obbligato a una maturità precoce, egli non rinuncia all’estasi del proprio essere bambino, quando si getta sulla sabbia a giocare con lo zio (un piano sequenza magistrale), testimonianza di un’evasione necessaria e naturale. Ci piace ricordare, in tal senso, il piccolo Nino Jouglet che dona un bel respiro di verità al personaggio di Jacques bambino assieme a Catherine Sola, assai toccante nel ruolo della madre dello scrittore durante il periodo della vecchiaia. |