Il ventre molle della Storia contiene non poche nefandezze: delitti e soprusi di ogni tipo che, per essere perpetrati in nome del potere, hanno bisogno del favore della notte. Che il potere sia “in sé cattivo” ce lo insegna una massima dello storico Jacob Burckhardt (citazione di un certo Schlosser riletta di recente nell’istruttivo “Dialogo sul potere” di Carl Schmitt, edizioni Adelphi). E che la sua cattiveria abbia bisogno di essere occultata, con la complicità delle tenebre notturne, l’hanno ribadito letteratura e cinema quando hanno provato a raccontarci, senza censure, verità spesso intollerabili ai sensi, tutto quello “che non avremmo mai voluto vedere o sapere”. Tra le tante, anche le verità di orrori consumati per conto di una ragione di stato disposta a sacrificare ogni principio del diritto moderno allo scopo di salvaguardare sé stessa, e questo non solamente durante i regimi di tirannia, quelli del secolo scorso dei militari al governo, i sanguinosi “tanghi macabri” nei quali gli oppositori diventavano perseguitati, materia rovente dei film dell’argentino Solanas (penso, tra tutti, allo splendido Sur) e di tanti altri registi e scrittori disposti al je accuse ammonitorio. La cattiveria del potere, quella notturna (da occultare e rimuovere), si è potuta esercitare sotto i nostri occhi, persino nell’Italietta fatua e berlusconiana, irresponsabile e furbetta di dodici anni fa. Di questo ci parla, con furore, un film utile e importante di Daniele Vicari, Diaz: Don’t Clean Up This Blood, disposto sin dal titolo a un esercizio encomiabile di disvelamento, sulla scia gloriosa delle buone intenzioni di certo cinema civile. Conoscevamo il Vicari dedito al “noir” e all’epopea minimalista della “generazione del vuoto”, il Vicari di Velocità Massima e de Il Passato è una Terra Straniera, corteggiamenti a quello che è rimasto del mito “on the road”.
Questa di Diaz è veramente una scelta forte: è rinunciare alla linearità del racconto per proporre una composizione corale e frastagliata, una storia semplice e atroce che procece per ellissi e spezzature temporali. Il tutto nel luogo di fatti realmente accaduti la notte tra il 20 e il 21 luglio del 2001 a Genova, durante i cruenti giorni del “G8”. Come in Rosi, è la figura di un giornalista, il Luca della “Gazzetta di Bologna” interpretato da Elio Germano, ad assumere il ruolo di testimone principale, arrivato a Genova dopo l’atroce fattaccio di Giuliani (a cui Francesca Comencini ha dedicato, qualche anno fa, un toccante documentario). Il filo rosso è però qui assai sottile: Vicari sente il bisogno di focalizzare l’attenzione su tanti personaggi, ognuno dei quali in grado di rappresentare una condizione. Se c’è una forma di antagonismo che Diazenuncia è soprattutto quella (pasoliniana) antropologica prima che sociale, culturale e quindi indirettamente politica. Le varie storie private s’incastrano l’una con l’altra, flashback e flashforward che dilatano i tempi emotivi di quelle fatidiche ore. Tutori dell’ordine costituzionale trasformati in pattuglie di aguzzini, animati dall’alibi della “repressione necessaria”: i carnefici del pestaggio notturno e delle torture in caserma sono loro, emblemi inquietanti di una ragione di Stato che ha perso ogni controllo, scegliendo d’incarnare la cattiveria del potere. Dall’altra parte, ecco le vittime disarmate e inani come l’Anselmo dell’ottimo Renato Scarpa, anziano e pacifico militante della CGIL, che si ritrova, insieme ad altri, ad affollare la scuola della tortura, rifugio notturno di alcuni membri del Genoa Social Forum. C’è Nick (Fabrizio Rongione, storico volto del cinema dei Dardenne), un manager arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George, riparato in quel luogo per mancanza di posto in hotel. E poi gli anarchici francesi Etienne (Ralph Amoussou) e Cecile (Emilie De Preissac) insieme a Bea (Lilith Stanghenberg) e Ralph (Christian Blumel), ritrovatisi nel posto sbagliato. E la struggente figura di Alma, impersonata da Jennifer Ulrich (un’attrice che non dimenticheremo molto facilmente), manifestante volenterosa alla ricerca degli scomparsi insieme a Marco (Davide Iacopini) e Franci (Camilla Semino), organizzatore e avvocatessa del Social Forum. A condividere il calvario di Marco nella notte degli orrori rimane Maria (Aylin Prandi), una ragazza spagnola da lui conosciuta sul posto. Non è un film quello che scorre intorno / che vediamo ogni giorno / che giriamo distogliendo lo sguardo / non è un film e non sono comparse: così canta l’intensa voce italiana di Fiorella Mannoia nel suo ultimo cd, bello come altri: la vita si fa romanzo, per parafrasare Truffaut, a patto che nel leggere l’irrealtà del reale s’impari finalmente a capire il mondo che ci circonda e a fare dell’esperienza un motivo di progresso per le comuni coscienze ferite. Del film rimangono gli atroci squarci dell’intollerabile esperienza vissuta dalle vittime, come quella della povera Alma, torturata nella latrina di Bolzaneto, sequenza–shock che rimanda al Salò/Sade di Pasolini. Ma Vicari sa anche restituire qualche segno meno sconfortante quando, sul finale, la macchina da presa, alzandosi, inquadra un paesaggio naturale irrorato di luci aurorali a dirci che un altro domani è possibile, a dispetto della comune paura dell’oggi. |