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Sacro GRA

Posted on October 25, 2018October 25, 2018 by revisioncinema
Il nostrano Leone d’Oro di questa 70° edizione della Mostra di Venezia è da considerare come un doppio riconoscimento. E’ stato vinto da Sacro GRA di Gianfranco Rosi. La giuria presieduta dal grande Bernardo Bertolucci ha voluto premiare il bel film di Rosi ma anche un modello di cinema che, da qualche anno a questa parte, riserva al suo pubblico non poche sorprese. Parliamo del documentario, o docufiction o docudrama o mockumentary che di si voglia, una forma per narrare storie e personaggi realmente esistenti oppure per ricostruire frammenti di un passato storicamente definito o per immergerci in scenari naturali con un taglio poetico che ci riconduce alle origini di questo genere cinematografico. A suo tempo, pluripremiata è stata pure l’opera del dirompente Michael Moore: il suoFahrenheit 9/11 è un tagliente reportage politico, uno je accuse incisivo che testimonia l’impegno civile del suo autore, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2004. Da anni, i documentari fanno incetta di premi conquistando festival come il Sundance o il Tribeca: sia pure in ritardo, questa tendenza si è affermata anche in Italia. Ma il fatto è che Sacro GRA, per intensità e rigore, si distacca dalla media del genere, proponendosi come un vivido bassorilievo incentrato sulla natura e cultura di un particolare paesaggio metropolitano, il Grande Raccordo Anulare, il più esteso nodo autostradale d’Italia già immortalato da Fellini in Roma.
L’idea di una ricognizione antropologica su questo marginale scenario nasce dal paesaggista Nicolò Bassetti. Dal canto suo, Rosi dedica il suo film alla memoria del compianto Renato Nicolini. Incastonate con sapienza, grazie anche al prezioso apporto in montaggio di Jacopo Quadri, le microstorie recuperate da Bassetti costituiscono la partitura ben temperata di Sacro GRA, Rosi utilizza concettualmente una doppia focale per il suo racconto che procede più per evocazioni che per testimonianze, proponendo un’epifania di umanità all’incanto, un campionario di esseri in estinzione che sembrano soprattutto dichiarare il proprio diritto all’espressione di sé. Un vero e proprio laboratorio d’identità in ebollizione, un lavoro d’incroci e di verifiche durate tre anni, il tempo sufficiente a Rosi per creare un rapporto di fiducia con gli abitanti del posto. Il risultato è un insieme di storie agrodolci, la mitologia di una quotidianità agganciata alla propria stessa pratica di sopravvivenza in un territorio non solo urbanisticamente impervio.Ed ecco allora il barelliere che lavora per conto del 118, come una sorta di angelo senz’ali, un astronauta perduto in un pianeta estraneo che si adopera per salvare dall’inedia alcuni barboni che abitano in un canale di scolo, o per soccorrere alcuni automobilisti imprudenti, o per confortare un’anziana in preda allo scoramento per solitudine (passaggio, quest’ultimo, tra i più commoventi del film). Ci sono poi un gruppo di operai che, in un piccolo cimitero, tirano fuori dai loculi alcune vecchie bare a cui è scaduto l’affitto, per poi farle a pezzi e seppellire il contenuto in una fossa comune sormontata da croci di legno, minimale e sconvolgente allusione all’infinito gesto di morte dopo la morte, un segno di Olocausto quotidiano. E c’è un moderno e asettico condominio, che sembra uscito da un film di Ken Loach, dove abitano un nobile piemontese e sua figlia, una laureanda abbacinata davanti al suo portatile: è nell’inquadratura dall’esterno di questo monolocale che si consuma uno dei dialoghi più intensi del film. C’imbattiamo, in seguito, con un aristocratico sfatto che trasforma il suo castello kitsch in un bed & breakfast affittandolo pure per la realizzazione di fotoromanzi; e un botanico proveniente da tour africano che vede minacciato il suo giardino di palme da un’invasione di larve divoratrici e così, armato di onde sonore, inscena una patetica guerriglia per distruggerle. A fare da corollario ai ritratti principali, ci sono un pescatore di anguille che vive sul Tevere e un gruppo di sarti cinesi e, ancora un decadente consesso di vecchi transessuali. Su tutti questi abitanti di un quartiere liminare e illuminato aleggia, sul finale, “Il cielo” di Lucio Dalla, a suggerire una prospettiva d’infinito: il piccolo che si fa grande, il tempo che si ferma per far coincidere le lancette del presente, del passato e del futuro, come i riverberi circolari in uno specchio d’acqua. D’altra parte, nel cinema di Gianfranco Rosi l’elemento acquatico è utilizzato per visualizzare l’anamorfosi di tutte le possibili trasparenze del reale: come il fiume Gange di Boatman e come la base militare fuori uso a 40 metri sotto il livello del mare di Below Sea Level. Anche in Sacro GRA il fiume Tevere che regge la casa galleggiante del pescatore di anguille sembra suggerirci che il vivere non può che essere uno stato mentale e che il tempo vissuto, quel film che si proietta dentro e fuori di noi, non è che il futuro di ogni passato.
Sacro GRA ci suggerisce, attraverso la sua magnifica sintesi, che la nostra ordinaria alienazione non è che un’illusione e che, nonostante tutte le barriere che isolano le nostre identità inquiete, siamo tutti protagonisti di un unico caos. Per individuare questa particolare dimensione abbiamo bisogno di un effetto “overlook”, utile a guardare una porzione di mondo come se fosse l’altare dell’altro mondo, la faccia nascosta della luna dove un botanico combatte contro l’insidia degli insetti (è una delle scene più emblematiche del film) illudendosi di poter lasciare spazio a un’impossibile armonia.

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