La ricerca del piacere, specialmente del piacere sessuale, è sempre legata a quella della morte e del dolore: è un intreccio, questo, su cui si è esercitata gran parte della letteratura occidentale e che, a cinema, ha prodotto opere memorabili. Nonostante ammonimenti e je accuse, le dinamiche laceranti dei rapporti uomo – donna non sembrano essere mutati. Anzi, la società multietnica, globalizzata e tecnologizzata sembra lasciare spazio a un primitivismo dai risvolti inquietanti. Prendiamo, ad esempio, il tema della mercificazione dei corpi e delle coscienze, la cui vertigine un cineasta duro e puro come Kim Ki-duk continua implacabilmente indagare, con secchezza tagliente e con un rigore che sembra puntare alla ricerca di un realismo talmente reificato da assumere l’aspetto della metafora. Avevamo già applaudito, l’anno scorso il Leone d’Oro per Pietà, splendido affondo sul brandello di una realtà disumana e marginale, dove i confini tra sacro e profano appaiono incerti e vertiginosi. Quest’ultima edizione della Mostra di Venezia, ci ha presentato di Kim Ki-duk una magnifica sintesi della sua conquistata maturità autorale: Moebius, un’altra parabola sulla perdizione e sullo smarrimento. In quest’ultimo film ritroviamo le impronte psicologiche e narrative di Birdcage Inn (che traccia la caduta di una giovane prostituta prigioniera di una coppia di sfruttatori), del celeberrimo L’Isola (storia dei conflitti vissuti da un’introspettiva giovane attratta da un omicida), de La Samaritana (dove due amiche si ritrovano disposte a prostituirsi per alimentare il loro sogno di fuga in Europa), di Ferro 3 – La Casa Vuota(nel quale il protagonista innesca il motore di una violenza incontrollabile con una mazza da golf), di Time (dove assistiamo al rifiorire delle pulsioni sessuali di una donna che si rifà i connotati del volto), di Soffio (parabola di una casalinga che si vendica del tradimento coniugale intrecciando una relazione con un condannato a morte) e in Dream (dove una donna s’impegna a inscenare i sogni repressi del suo partner).
Tutta la materia del cinema visionario e affilato di Kim Ki-duk si è solidificata attorno al nucleo tematico delle dinamiche di un desiderio aperto ai rischi del fallimento, della catastrofe e della fuga (fuga nella dimensione del doppio sogno, nella schizofrenia che sfocia in una violenza incontrollabile e, quasi sempre, di matrice sadomasochista). Ognuna di queste pulsioni viene disposta, da questo singolare autore, in una prospettiva geometrica. Una geometria di aberrazioni, dove i volumi più spigolosi lasciano circolare un respiro elegiaco come in Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera. E’ sempre una circolarità, quella del nastro di Moebius e della sua teoria, a ispirare quest’ultima prova del nostro, ancora impegnata a sondare le derive della sessualità. Un padre ha una giovane amante, è spiato dal figlio mentre fa l’amore con lei in auto ed è costretto ad affrontare la moglie che, una volta scoperto il tradimento, tenta di evirarlo. Non riuscendoci, la donna utilizza lo stesso coltello per infierire sul corpo del figlio e, una volta compiuto l’insano gesto, fugge via di casa. Toccherà al padre fedifrago impegnarsi a restituire al ragazzo il suo organo reciso per mezzo di una delicata operazione chirurgica in un ospedale specializzato in Germania. Nel delineare questa paradossale catastrofe familiare, Kim Ki-duk adotta i modi consueti del suo stile, sintetico ed evocativo: assenza totale di dialoghi e prospettive in abisso a inquadrare momenti cruciali di relazione tra personaggi (come in Ferro 3), oltre a dosi massicce di humour nero che fanno lievitare l’assunto e i suoi toni. La coloritura è rintracciabile, anche in questo film, nei dettagli: la trasmissione del dolore da padre a figlio avviene attraverso rituali nevrotici (e così il protagonista apprende via Internet una possibilità di orgasmo dalla sfregatura del piede su una pietra, mentre il ragazzo, innamoratosi della giovane amante paterna, gode del suo stupro almeno quanto, in seguito, del proprio accoltellamento per mano della fanciulla). Il calembour freudiano centra il parossismo nella scena dell’auto evirazione del padre, con il suo pene che rotola per strada fin sotto un camion. |