reVision – Home Page
Menu
  • Home
  • 69. Mostra Internazionale
  • Archivio
  • Cinema
  • Cinema 2012
  • Colonne Sonore
  • Diaz – Don’t Clean Up This Blood
  • E’ Stato il Figlio
  • Home Video
  • Il Primo Uomo
  • L’Intrepido
  • La Bottega dei Suicidi
  • Le Vie del Cinema da Cannes a Roma
  • Links
  • Moebius
  • News
  • Revision Awards
  • Sacro GRA
  • Sicilia Queer Filmfest 2012
  • Venuto al Mondo
  • Via Castellana Bandiera
Menu

69. Mostra Internazionale

Posted on October 25, 2018January 26, 2019 by revisioncinema

 

69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

O Gebo e a Sombra (Fuori Concorso)

1h 34’ – Regia: Manoel de Oliveira

Solamente i classici hanno diritto all’immortalità. E Manoel de Oliveira classico lo è ormai diventato per diritto. Non sono certamente i suoi certificati 104 anni a dargli autorità. Dal bel saggio biografico del filosofo del diritto Francesco Saverio Nisio (casa editrice “Le Mani”) apprendiamo che l’anziano maestro è nato a Porto, a nord del Portogallo, l’11 dicembre 1908 per essere iscritto all’anagrafe il giorno dopo. Una fortunata discrasia anagrafica che proietta il nostro, fin dalle sue origini, nel futuro. Un segno di vitalità confermato dalle sue opere, ognuna delle quali è testimonianza di lucidità e di “agudeza”, di modernità e di flagranza. Anche quest’ultimo O Gebo e a Sombra, presentato a Venezia fuori concorso, colpisce al cuore: si tratta di una sapienziale parabola sul mistero dei legami esistenziali, sulla loro magnifica retorica che sfida le nostre ipocrisie e i nostri egoismi. Di ossessioni legate a un passato sfuggente e struggente trattava pure il precedente O Estranho Caso de Angélica, dove un fotografo viene spinto al suicidio dal particolare del sorriso ritratto di una fanciulla defunta. Ora Oliveira affronta la materia di una pièce datata 1923 dello scrittore suo conterraneo Raul Brandão, celebre per il suo stile sospeso tra realismo e lirismo.
Ancora una volta è di scena l’ombra, quella che perseguita il vecchio contabile Gebo (un sublime Michael Lonsdale), costretto per necessità a lavorare fino a notte inoltrata. Notturna ombra di rimpianto che lo spinge a ricordare il figlio João (Ricardo Trêpa), da tempo lontano da casa. Ombra nell’ombra sono i dettagli misteriosi che Gebo nasconde alla moglie Doroteia (magistralmente interpretata da Claudia Cardinale) relativamente al reale motivo del traumatico allontanamento filiale e a una sua possibile riapparizione, dopo la fuga che ha lasciato nell’angoscia anche la moglie Sofia (Leonor Silveira). A quest’ombra occorre dare un corpo e così al tavolo di Gebo si uniscono un regista di teatro e una vicina di casa che ha il volto della grande Jeanne Moreau. E a un certo punto João riappare davvero, ma in tutta la sua ineffabile ambiguità. Macchina ferma, nessun effetto, decor privo di orpelli e straordinaria perizia nel dirigere gli interpreti: il gioco crudele di Oliveira punta a svelare lo scheletro stesso delle identità dei suoi personaggi. E’ un geometrico ballo delle coscienze lacerate che lascia emergere la necessità (sempre) incombente dell’onestà intellettuale ed etica, da recuperare almeno prima che il cerchio di ogni vicenda umana si chiuda. Questa sonata di fantasmi, dal vago sapore strindberghiano, incide il corpo stesso della nostra contemporaneità mentre la questione morale è sempre alle porte: lo fa con levità e rigore, caratteristiche queste dello stile di Oliveira, in questo caso assecondato dalla fotografia sottilmente rarefatta di Renato Berta.

Terramatta – Il Novecento Italiano di Vincenzo Rabito analfabeta siciliano (Giornate degli Autori – Evento Speciale)

1h 15’ – Regia: Costanza Quatriglio

A volte le parole possono dare corpo alle immagini. Ed è un corpo a corpo con la realtà a ispirare questa nuova partitura di Costanza Quatriglio, cineasta palermitana per la quale ogni approdo sembra essere un nuovo punto di partenza. Il suo Terramatta mescola, con toccante partecipazione emotiva, immagini di repertorio e reportage flagranti, passato e presente di una condizione antropologica che ha per scenario ancora una volta la sua Sicilia. La materia la fornisce la narrazione spuria di Vincenzo Rabito (1899 – 1981), “inafabeto” di Chiaramonte Gulfi, il cui dettato autobiografico, torrenziale e decostruito, è diventato un caso editoriale targato Einaudi, titolo divenuto prima spettacolo teatrale e ora film. La regista attiva con perizia postmoderna le dovute connessioni, evocando invece di illustrare, inscrivendo la storia del contadino Rabito nell’ampia griglia della Storia condivisa. In questo è assecondata dalla complicità di Chiara Ottaviano, autrice con lei della struggente sceneggiatura, e dall’apporto di Roberto Nobile, incisiva voce narrante. Così i lacerti dell’Istituto Luce, opportunamente riquadrati, si amalgamano al diario di viaggio nel paesino originario del protagonista, dove vivono ancora i figli ormai anziani.
Abbiamo parlato di partiture perché il retrogusto musicale di questa docufiction affiora palesemente qua e là, come indicazione di un lirismo mai ricercato, ma quasi fisiologico. E così va delineandosi il tragitto esemplare di un uomo semplice che ha attraversato le due guerre novecentesche, che ha indossato e smesso divise, che ha lavorato per la sua famiglia fin da bambino, che ha girovagato e combattuto le sue battaglie vinte e perse fino al ritorno in Sicilia per abbracciare la professione umile e utile di cantoniere. Una vita difficile, per parafrasare l’epica sordiana, qui però restituita facendo a meno degli archetipi di genere, e comunque un po’ farsa e un po’ tragedia come tutte le vite il cui racconto risulta emblematico.
Delicato e incisivo, vibrante ma antiretorico, il film della Quatriglio conferma la vitalità di un genere ormai ibridato, quello del “documentario”, capace di emozionare intellettualmente quanto e più della fiction corrente.

La nave dolce (Fuori Concorso – Proiezioni Speciali)

1h 32’ – Regia: Daniele Vicari

Per Daniele Vicari la realtà è tutto. Realtà da sondare, decifrare, interpretare. E ancora una volta la parola è il medium privilegiato, buono a riesumare il passato per rovesciarlo, come materia rovente, nel presente. La realtà indagata è sempre quella marginale, il vissuto degli ultimi che si fa bruciante testimonianza di lacerazione sociale: è La Nave Dolce, dove il racconto dei protagonisti prova a sollecitare le coscienze, facendo i conti con avvenimenti della Storia recente, a partire dal traumatico evento della caduta del muro di Berlino. La nave del titolo è la Vlora sbarcata nel porto di Bari l’8 agosto del 1991 con il suo carico di ventimila albanesi. Se “dolce” è il sapore della speranza di riscatto per questi diseredati convinti, da un abbaglio mediatico, di aver conquistato l’Eldorado, l’”amaro” è tutto in quell’Italia degli anni Novanta, già segnata dal disfacimento sociale, politico ed economico e in preda all’offensiva mafiosa culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Reperti d’archivio ricostruiscono sinteticamente quell’ombroso contesto, mentre le testimonianze dei migranti decifrano illusioni e delusioni, fallimenti e faticose affermazioni (tra questi albanesi approdati a Bari c’era il danzatore Kledi Kadiu, poi lanciato dai talk show di Maria De Filippi).
Interpretando con piglio critico le contraddizioni di quell’emblematica vicenda, Vicari si fa portatore sano di una verità velenosa, raccontandoci una storia di emigrazione che è simbolo dell’inadeguatezza e della fatiscenza del tessuto stesso di cui è fatta la contemporanea nostra società civile. Dopo il meditato je accuse di Diaz, questo nuovo “lampo sull’acqua” in forma di documentario svela un altro episodio di rimozione culturale, uno dei tanti che ha fatto la storia del nostro Paese, confondendo i carnefici con le vittime e rendendoci tutti più poveri, stranieri in patria alla ricerca delle rinnovate ragioni di una vera solidarietà.

Pinocchio (Giornate degli Autori)

1h 24’ – Regia: Enzo D’Alò

In cima ai titoli di coda, l’omaggio di un’epigrafe: “Ciao Lucio”. E’ una vignetta che ritrae il burattino inventato dalla sopraffina penna di Carlo Collodi intento a piangere sulla tomba dove campeggiano il cappello e il clarinetto del compianto maestro di tutti Dalla. La commovente “reverie” di questo Pinocchio richiama iconograficamente quella della copertina del settimanale “Epoca” che, nel Natale del 1966, ritrasse Topolino in lacrime per la scomparsa recente del suo inventore Walt Disney. E in effetti, il nuovo film di Eno D’Alò nasce sotto il segno di Lucio Dalla, complice musicale dell’impresa (attraverso brani che citano Rossini e Nino Rota) come lo è stato Paolo Conte per il precedente capolavoro d’animazione, La Freccia Azzurra. E sempre Dalla regala il suo timbro al pescatore verde, una delle tante apparizioni–reinvenzioni di questa versione del classico animata dai tratti iperrealistici del fumettista Lorenzo Mattotti, screziato omaggio concettuale ai tanti illustratori che, a partire dall’Ottocento per tutto il Secolo Breve hanno fluidificato l’iconografia del burattino più celebre del mondo.
Per D’Alò, che ha sceneggiato la sua versione con Umberto Marino, Pinocchio è metafora di libertà. Una libertà che si conquista a caro prezzo, prima della metamorfosi finale, come in tutte le storie di apprendistato esistenziale. La diversità di Pinocchio, che è la stessa di ogni adolescente sottoposto al trauma del “diventare adulto”, sta tutta nella sua vitale elaborazione del lutto, della perdita della Madre e del Padre, alla fine riconquistati. Il regista de La Gabbianella e il Gatto dà forma a questa vitalità, incidendo metafore come quella iniziale dell’aquilone che alludono a voli pindarici dell’utopia, patrimonio dell’età breve. Che D’Alò abbia pensato al suo Pinocchio con spirito da fanciullo, legandolo alle proprie emozioni originarie, lo dimostra la dedica dell’incipit, “Al mio babbo. E a tutti babbi babbini del mondo” evidenza di purezza che guida l’abilità, sospesa tra antico e moderno, di questo straordinario artigiano dell’animazione. Le canzoni composte da Dalla sono cantate da Nada e Leda Battisti, oltre che da Marco Alemanno, compagno del cantautore scomparso, mentre è lo stesso Lucio a interpretare il brano che chiude il film. Una colonna sonora che appena verrà pubblicata su CD è destinata a diventare un successo di vendita, a seguire il futuro del Pinocchio nostro contemporaneo.

Cherchez Hortense (Fuori Concorso)

1h 40’ – Regia: Pascal Bonitzer

La raffinata (e ormai proverbiale) cucitura drammaturgica, che è la peculiare caratteristica del Made in France, deve gran parte della propria aura all’abilità dei dialoghisti. Sono loro, infatti, a fornire la materia preziosa alle performance misurate e incisive degli interpreti. Ennesima conferma di questo primato che riguarda la cinematografia d’Oltralpe è l’ultima fatica di Pascal Bonitzer, navigato sceneggiatore per André Techiné e per Jacques Rivette, ex critico cinematografico dei “Cahiers du Cinéma” e attualmente direttore del Dipartimento della Scuola di Cinema “La Femis”. Mettendo a frutto la sua arguzia dispiegata sugli script, una volta passato sia pur tardivamente alla regia, Bonitzer ci regala, con Cherchez Hortense, una commedia umana intellettualmente avvertita, strizzando un occhio a Woody Allen ma proiettandosi con ironico rigore a indagare i gangli antropologici del proprio contesto culturale, a partire da un’acuta osservazione della quotidianità in fieri.
Jean-Pierre Bacri, attore meraviglioso, interpreta il professore di sinologia Damien restituendone con sottigliezza accensioni ironiche e incipienti cupezze. La di lui moglie Iva, che di mestiere fa la regista teatrale, è affidata all’elegante aplomb di Kristin Scott Thomas. A disincagliare la routine annichilente del loro ménage provvede Zorica, una clandestina serba in perenne attesa di un permesso di soggiorno a rischio di rinnovo (azzardata ma vincente la scelta di affidare questo ruolo alla francese doc Isabelle Carré che se la cava brillantemente). E’ proprio per il fatale documento che Iva spinge il marito a rivolgersi al padre, membro del Consiglio di Stato (un grande Claude Rich). Per Damien l’intrigo si fa così stringente a causa dell’incarico più coinvolgente del previsto, capace di riattivare la vitalità perduta, compromettendo il già fragile matrimonio e l’incerto rapporto con il figlio Noè (Marin Orcand Tourres). Si respira una vaga allure da Nouvelle Vague in questo corrosivo, giocoso affondo sull’attuale girotondo esistenziale vissuto, tra citazioni di cultura morta e viva dell’Occidente in agonia, in una società ormai multietnica per vanto.

Den skaldede frisør (Love Is All You Need) (Fuori Concorso)

1h 56’ – Regia: Susanne Bier

La danese Susanne Bier continua a sorprenderci col suo ritorno alla commedia a seguire Dopo il Matrimonio e In un Mondo Migliore, quest’ultimo premiato con l’Oscar. Generi a parte, il tema della regista scandinava (figlia di un ebreo tedesco e di una danese dalle origini ebraiche e russe) è sempre quello del crogiolo familiare capace di enucleare contraddizioni brucianti e velenose. Se in The One and Only il nodulo individuato era quello dell’adozione e in Once in a Lifetime quello del sogno perduto di una sfortunata cantante adolescente, in quest’ultimo Love Is All You Need è la vertigine amorosa a costituire il punctum dolente. Scenario dal retrogusto favolistico è una villa a Sorrento, uno scarto geografico e climatico lungo la rotta Danimarca – Italia (dalla tragedia alla commedia) che rimanda a certi detour hollywoodiani alla Billy Wilder o alla Blake Edwards, per il racconto di un matrimonio da fare il cui cerimoniale s’ingolfa in un “impasse” emotivo che apre ferite passate e delusioni recenti, mettendo in moto gli ormoni e le coscienze dei protagonisti. Ida (Trine Dyrholm), bionda parrucchiera in lotta con un cancro che la lacera, coglie il marito in flagrante prassi da adulterio. Philip (Pierce Brosnan) è un vedovo che, a Copenaghen, lavora come importatore di frutta. Un incidente d’auto li fa incontrare nello scontro all’aeroporto mentre sono in procinto di recarsi al matrimonio dei rispettivi figli nel solare, italico sito.
Brillante e meditata è la sceneggiatura della regista in coppia con il fedele Anders Thomas Jensen, da cui scaturisce l’agrodolce partitura postromantica del film, cassa di risonanza di sentimenti contraddittori e di condizioni estreme (amore e malattia, vitalità e solitudine, voglia di assoluto e tradimento). Brosnan è un affascinante cinquantenne, sornione e malinconico, per il quale la Bier scrive tra i dialoghi più belli del film, mentre la danese Dyrholm, attrice prevalentemente drammatica, restituisce con finezza le sfumature, anche dolorose del suo personaggio (guardatela con quanto pudore si toglie la parrucca che nasconde la calvizie da chemioterapia). Con Love Is All You Need si piange e si ride contemporaneamente come nelle pièce di Cechov, come nella vita.

The Iceman (Fuori Concorso)

1h 45’ – Regia: Ariel Vromen

Michael Shannon, oggi, è l’attore che riesce perfettamente a incarnare il lato oscuro di un’America sempre più affannosamente impegnata a nascondere le proprie fragilità, che sono le stesse dell’Occidente in crisi. In The Iceman affronta un personaggio realmente esistito, il killer professionista di Jersey City Richard Kuklinski, classe 1935, con un curriculum di centinaia di omicidi e due ergastoli scontati nella prigione di Trenton dove è morto nel 2006. Un mercenario d’onore, padre e marito esemplare, a servizio di famiglie tristemente rinomate come i Gambino e i Clemente, implacabile esecutore (con un solo tabù: non uccidere donne e bambini) ed esperto nel congelare i cadaveri delle sue vittime (da qui il soprannome che dà il titolo al film). Il personaggio realmente esistito a cui Shannon conferisce spessore ombroso è il fulcro di questa sanguinosa parabola esemplare che si snoda lungo l’arco di tre lustri, a partire dagli anni Sessanta. Il regista di origini israeliane Ariel Vromen è assai abile nel fare emergere la sostanza psicologica del suo protagonista, immergendolo senza alcun compiacimento retorico in una griglia noir di antica tradizione made in Usa. Il cast, vibrante e cool al punto giusto si avvale di James Franco e di Ray Liotta, mentre la ben ritrovata Winona Ryder è bravissima nel donare le giuste sfumature nevrotiche al personaggio della moglie di Kulkinski. Un solido capitolo del romanzo infinito del Male oscuro che attanaglia ogni speranza di redenzione, allora come oggi, in quell’America che siamo tutti noi.

Araf (Somewhere in Between) (Orizzonti)

2h 05’ – Regia: Yesim Ustaoglu

Con Araf, la regista Yesim Ustaoglu ci regala la folgorante dimostrazione della tenuta di una cinematografia rigorosa, intensa, lacerante: di quello che oggi è il cinema in Turchia. E’ un film che racconta dello sconfinamento d’identità che si rifugiano nel silenzio e nella solitudine, spirale di un Nulla che incombe. Il titolo stesso allude a un “luogo in mezzo”, un confine che è anche un limite estremo, un dead point. E’ la stazione di servizio dove lavorano due ragazze adolescenti, Zhera (Neslihan Ataguül) e Olgun (Baris Hacihan), consumate nel loro percorso di crescita dalla monotonia di lunghe giornate tutte uguali. Fino a quando entra in scena Mahur (Özcan Deniz), un misterioso camionista che è in grado di risvegliare brutalmente il torpore sessuale delle due protagoniste, attraverso le lusinghe del triangolo amoroso (una delle due fanciulle resta incinta) che troncherà ogni aspirazione di rivalsa. A dipingere questo cul de sac, immerso in una Turchia piena di ombre, è una cineasta di rara sensibilità, a cui non sfugge di mano la scottante materia narrata, in grado com’è di controllarne le temperature (si veda la scabrosa scena dell’espulsione del feto nel bagno, ultima e lacerante decisione della protagonista disperata). In quel confine c’è tutta l’incertezza del nostro presente, dell’interruzione estrema di corteggiare il vuoto prima di caderci dentro.

Bellas Mariposas (Orizzonti)

1h 40’ – Regia: Salvatore Mereu

La sorpresa italiana di questa 69° Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica è senz’altro Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, assieme a quella de L’Intervallo di Leonardo Di Costanzo entrambi presentati nella sezione “Orizzonti”. La sorpresa non riguarda il fatto che quella di Mereu sia una commedia (di commedie se ne fanno sin troppe in Italia) ma che sia un film di rara qualità. Una misura di stile già rilevabile nello splendido Sonetaula e nell’esordio di Ballo a Tre Passi, evocazioni suggestive e avvertite dell’individuazione di un territorio (ri)generatore di mitologie contemporanee, quello della Sardegna, isola natale del nostro autore.
In Bellas Mariposas la materia d’ispirazione è un racconto di Sergio Atzeni ambientato in un torrido 3 agosto alla periferia di Cagliari. C’è l’undicenne Cate intenzionata a non fare la fine delle sue sorelle, una delle quali è rimasta incinta a tredici anni mentre l’altra è diventata ostaggio delle morbose mire dei ragazzi di quartiere. Il sogno proibito della giovane protagonista è quello di affermarsi come cantante, in questo sorretta dalla confortante amicizia del coetaneo Gigi, suo vicino di casa che un brutto giorno apprende di essere divenuto il bersaglio del fratello di Cate intenzionato a ucciderlo. E qui la vicenda acquista i toni di una favola realistica, quando Cate, assieme alla sua amica Luna, si trova faccia a faccia, durante un tramonto in spiaggia, con la strega veggente Coga Aleni (un sorprendente cammeo di Micaela Ramazzotti).
Le coloriture surreali esaltano la concretezza dolorosa del paesaggio umano e geografico assai caro al regista, e il tutto appare sorretto da una sceneggiatura che vola alta. La voce off della piccola Cate sottolinea il racconto con levità per un film che argutamente cita le temperature di Truffaut. Le due piccole protagoniste dimostrano una maliziosa, inconsapevole innocenza e il loro tragitto di formazione svela la condizione di un contesto separato, una periferia distante da tutte le periferie del mondo. Un applauso va agli attori in erba, da Sara Podda a Maya Mulas e Davide Todde, artefici anche loro di un film tutto proiettato nel futuro.

L’Intervallo (Orizzonti)

1h 26’ – Regia: Leonardo Di Costanzo

Anche in questo rigoroso e intenso L’Intervallo, opera dell’apprezzato documentarista Leonardo Di Costanzo, i protagonisti sono una coppia di adolescenti in una vicenda che si snoda lungo l’arco di una giornata. Lo scenario è uno stabilimento abbandonato nel degrado di frontiera della Napoli assediata dall’epica dolente di Saviano. Salvatore deve sorvegliare la coetanea Veronica colpevole di aver fatto un torto a un boss di quartiere. In questa breve attesa, tra i due s’instaura un contraddittorio rapporto di complicità, favorito dall’aura di un esoterico legame con l’ingombrante spettro di una giovane che, rimasta incinta, si è suicidata.
Allo spettatore tocca decifrare i sottili sommovimenti emotivi della coatta relazione, affidata alla naturale espressività dei due interpreti e resa misteriosa dal ricorso realistico a dialoghi in dialetto stretto oltre che dalle screziature iperrealiste della fotografia di Luca Bigazzi che gioca sui contrasti tra luci e ombre, mentre la regia punta alla messa in rilievo della condizione claustrofobica che attanaglia i due protagonisti (Alessio Gallo e Francesca Riso, efficaci incarnazioni di uno status quo esistenziale).
Sceneggiato dallo stesso Di Costanzo con Mariangela Barbanente e Maurizio Braucci, L’Intervallo è un film sull’attesa che si fa metafora ed è capace di regalarci una delle sequenze più belle viste di recente in un film italiano: Salvatore e Veronica in barca intenti a navigare tra quelle mura, per poco tempo liberi dalla loro forzata prigionia, mentre lei consuma il suo piccolo sogno di trovarsi in un reality show. E il miracolo si fa grande, grazie alla potenza sottile sottile del vero cinema.

 

Magazine

  • Game Bermain Judi Online Yang Populer Di Asia
  • Tips to Win Horse in Gambling Online
  • Il Primo Uomo
  • Diaz – Don’t Clean Up This Blood
  • Le Vie del Cinema da Cannes a Roma
  • Sicilia Queer Filmfest 2012
March 2023
M T W T F S S
 12345
6789101112
13141516171819
20212223242526
2728293031  
« Apr    
©2023 reVision – Home Page | WordPress Theme by Superbthemes