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Diaz – Don’t Clean Up This Blood

Posted on October 25, 2018January 26, 2019 by revisioncinema

 

Il ventre molle della Storia contiene non poche nefandezze: delitti e soprusi di ogni tipo che, per essere perpetrati in nome del potere, hanno bisogno del favore della notte. Che il potere sia “in sé cattivo” ce lo insegna una massima dello storico Jacob Burckhardt (citazione di un certo Schlosser riletta di recente nell’istruttivo “Dialogo sul potere” di Carl Schmitt, edizioni Adelphi). E che la sua cattiveria abbia bisogno di essere occultata, con la complicità delle tenebre notturne, l’hanno ribadito letteratura e cinema quando hanno provato a raccontarci, senza censure, verità spesso intollerabili ai sensi, tutto quello “che non avremmo mai voluto vedere o sapere”. Tra le tante, anche le verità di orrori consumati per conto di una ragione di stato disposta a sacrificare ogni principio del diritto moderno allo scopo di salvaguardare sé stessa, e questo non solamente durante i regimi di tirannia, quelli del secolo scorso dei militari al governo, i sanguinosi “tanghi macabri” nei quali gli oppositori diventavano perseguitati, materia rovente dei film dell’argentino Solanas (penso, tra tutti, allo splendido Sur) e di tanti altri registi e scrittori disposti al je accuse ammonitorio. La cattiveria del potere, quella notturna (da occultare e rimuovere), si è potuta esercitare sotto i nostri occhi, persino nell’Italietta fatua e berlusconiana, irresponsabile e furbetta di dodici anni fa. Di questo ci parla, con furore, un film utile e importante di Daniele Vicari, Diaz: Don’t Clean Up This Blood, disposto sin dal titolo a un esercizio encomiabile di disvelamento, sulla scia gloriosa delle buone intenzioni di certo cinema civile. Conoscevamo il Vicari dedito al “noir” e all’epopea minimalista della “generazione del vuoto”, il Vicari di Velocità Massima e de Il Passato è una Terra Straniera, corteggiamenti a quello che è rimasto del mito “on the road”.

Questa di Diaz è veramente una scelta forte: è rinunciare alla linearità del racconto per proporre una composizione corale e frastagliata, una storia semplice e atroce che procece per ellissi e spezzature temporali. Il tutto nel luogo di fatti realmente accaduti la notte tra il 20 e il 21 luglio del 2001 a Genova, durante i cruenti giorni del “G8”.
Giorni che hanno preceduto il giro di vite planetario dell’attentato alle Twin Towers, giorni di battaglia metropolitana imposta dall’espressione nascente di un movimento che si opponeva (che continua a opporsi) ai processi di globalizzazione del sistema economico mondiale. Davide contro Golia, intenzionalità pacifiste inquinate dalla furia irrazionale della violenza “black block”, reazione scomposta e dilettantistica delle forze dell’ordine chiamate a difendere la cittadella blindata degli sparuti rappresentanti di 8 paesi occidentali alle prese con equilibrismi finanziari e piani economici anti–crisi. In mezzo, l’immane tragedia privata e collettiva di una giovane vita sacrificata, quella di Carlo Giuliani. Quei terribili giorni sono stati raccontati dalle schegge “live” d’innumerevoli reporter improvvisati (testimonianze in video dei tanti eccessi polizieschi, finite negli atti giudiziari di lunghi dibattimenti, alcuni dei quali ancora irrisolti) e poi da docufiction dal clamoroso impatto. Ma non è per declinare le ragioni di questo emblematico scontro, del “ribellarsi è giusto” e della sua rabbiosa repressione, che un film come Diaz è stato fatto. Vicari vuole innanzi tutto detttarci il suo stupore e la sua indignazione, la rabbia civile di chi si confronta con la tenebrosa sospensione di ogni diritto democratico in democrazia. Per fare questo ha focalizzato l’avvenimento più nascosto e cruento di quei giorni: i fatti alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto in quella notte maledetta. E così si è documentato con scrupolo (come faceva a suo tempo Francesco Rosi per Salvatore Giuliano o Il Caso Mattei), leggendo le carte dei processi conclusi e correnti per dare corpo alla sceneggiatura in coppia con Laura Paolucci, Alessandro Bandinelli ed Emanuele Scaringi. Il film lo si deve alla pervicacia illuminata del produttore Domenico Procacci che ha sostenuto il progetto come Franco Cristaldi sostenne il “Giuliano” di Rosi. Per la location si è scelta la Romania dove in 250 metri è stata ricostruita la via Battisti, mentre è nella periferia di Bucarest che è stato ricreato un intero quartiere di Genova. Il parallelismo ideo–geografico è assai evocativo, pensando al colpo di stato avvenuto nel 1989 che pose fine al truce regime di Ceausescu. L’effetto spaesamento è il vero “punctum” del film. Possibile che questi fatti siano accaduti proprio da noi?: così si chiede il pubblico italiano. L’Italia “immemore” che, ancora oggi, scambia gli effetti per le cause, dedita alla rimozione dei tanti misteri di Stato che hanno segnato la sua recente Storia: è questo l’oggetto del discorso di Vicari. Per parlare del nostro comune status non possiamo che cercare di capire il passato guardandolo in faccia. Così, il film parte da una scena primaria: una bottiglia lanciata per rabbia che s’infrange sul terreno (l’osso scagliato dall’androide di “2001”?). E’ il tempo del racconto che si frantuma a favore di una visione critica dello spettatore.

Come in Rosi, è la figura di un giornalista, il Luca della “Gazzetta di Bologna” interpretato da Elio Germano, ad assumere il ruolo di testimone principale, arrivato a Genova dopo l’atroce fattaccio di Giuliani (a cui Francesca Comencini ha dedicato, qualche anno fa, un toccante documentario). Il filo rosso è però qui assai sottile: Vicari sente il bisogno di focalizzare l’attenzione su tanti personaggi, ognuno dei quali in grado di rappresentare una condizione. Se c’è una forma di antagonismo che Diazenuncia è soprattutto quella (pasoliniana) antropologica prima che sociale, culturale e quindi indirettamente politica. Le varie storie private s’incastrano l’una con l’altra, flashback e flashforward che dilatano i tempi emotivi di quelle fatidiche ore. Tutori dell’ordine costituzionale trasformati in pattuglie di aguzzini, animati dall’alibi della “repressione necessaria”: i carnefici del pestaggio notturno e delle torture in caserma sono loro, emblemi inquietanti di una ragione di Stato che ha perso ogni controllo, scegliendo d’incarnare la cattiveria del potere. Dall’altra parte, ecco le vittime disarmate e inani come l’Anselmo dell’ottimo Renato Scarpa, anziano e pacifico militante della CGIL, che si ritrova, insieme ad altri, ad affollare la scuola della tortura, rifugio notturno di alcuni membri del Genoa Social Forum. C’è Nick (Fabrizio Rongione, storico volto del cinema dei Dardenne), un manager arrivato a Genova per seguire il seminario dell’economista Susan George, riparato in quel luogo per mancanza di posto in hotel. E poi gli anarchici francesi Etienne (Ralph Amoussou) e Cecile (Emilie De Preissac) insieme a Bea (Lilith Stanghenberg) e Ralph (Christian Blumel), ritrovatisi nel posto sbagliato. E la struggente figura di Alma, impersonata da Jennifer Ulrich (un’attrice che non dimenticheremo molto facilmente), manifestante volenterosa alla ricerca degli scomparsi insieme a Marco (Davide Iacopini) e Franci (Camilla Semino), organizzatore e avvocatessa del Social Forum. A condividere il calvario di Marco nella notte degli orrori rimane Maria (Aylin Prandi), una ragazza spagnola da lui conosciuta sul posto.
E’ poi la luce dell’alba a rilevare le incredibili proporzioni del massacro mentre nella caserma di Bolzaneto si consumano altri intollerabili soprusi che il film mostra senza reticenze. A Claudio Santamaria è andato il difficile compito di dare consistenza alle ambiguità di Max, vicequestore del primo reparto mobile di Roma, capace di prendere coscienza della degenerazione di colleghi e sottoposti, desideroso com’è di rifugiarsi nel proprio alveo familiare. Da ricordare è pure l’efficace performance di Mattia Sbragia nell’atroce ruolo del decisionista Armando Carnera (nome inventato per allusione certa), il superpoliziotto legato ai servizi segreti che dà l’ordine del blitz fatale. Oscillando con lucida determinazione tra ansia documentaristica e volontà narrativa, Vicari lascia che il cinema faccia il suo corso, con sgranature necessarie e qualche sottolineatura didascalica controllata. Così ci catapulta tutti dentro l’orrore dei fatti nudi e crudi per permetterci di viverli in prima persona. Diaz è l’espressione consapevolmente moderna di un cinema italiano tornato ai suoi fasti civili e ben capace di recuperare la lezione di Rosi e di Petri però rinnovandola con vigore. Si avverte un retrogusto di genere, da war movie o da western metropolitano, anche se ogni cosa, in questo film, resta al servizio di una volontà di denuncia nei riguardi di una sottocultura ideologica e culturale capace di creare mostri, qui e oggi, in Italia.

Non è un film quello che scorre intorno / che vediamo ogni giorno / che giriamo distogliendo lo sguardo / non è un film e non sono comparse: così canta l’intensa voce italiana di Fiorella Mannoia nel suo ultimo cd, bello come altri: la vita si fa romanzo, per parafrasare Truffaut, a patto che nel leggere l’irrealtà del reale s’impari finalmente a capire il mondo che ci circonda e a fare dell’esperienza un motivo di progresso per le comuni coscienze ferite. Del film rimangono gli atroci squarci dell’intollerabile esperienza vissuta dalle vittime, come quella della povera Alma, torturata nella latrina di Bolzaneto, sequenza–shock che rimanda al Salò/Sade di Pasolini. Ma Vicari sa anche restituire qualche segno meno sconfortante quando, sul finale, la macchina da presa, alzandosi, inquadra un paesaggio naturale irrorato di luci aurorali a dirci che un altro domani è possibile, a dispetto della comune paura dell’oggi.
E’ solamente attraverso la luce della memoria che si possono rintracciare le tenebre ombrose della Storia: ce lo insegna l’operaio protagonista di Sur, simbolo di tutti i reduci che, come quelli della “Diaz”, si ostinano a raccontare la propria atroce storia perché gli altri possano capire, perché ulteriori vittime innocenti siano risparmiate, perché la verità si affermi, al di là delle tardive sentenze dei tribunali.

 

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