Non si può che applaudire il lavoro di Daniele Ciprì come direttore della fotografia, dai tempi del sodalizio con Franco Maresco e della fucina “Cinico”, passando attraverso la svolta alla scuola del guru illuminato Bellocchio fino alle ultime prove (quella di Alì ha gli Occhi Azzurri di Claudio Giovannesi, ad esempio). Bene ha fatto la giuria del 69° Festival veneziano a premiarlo in questa veste, in coppia con Mimmo Caiuli: un premio ad un aspetto meritevole della sua carriera in ascesa. Sguardo acuto, istinto sempre acceso, pantagruelica tendenza al citazionismo, intelligente propensione alla matericità (soprattutto quando si confronta con certe trasparenze cromatiche) e attitudine puntuta a certo pittoricismo concettualmente educato: su Ciprì fotografo, niente da dire. Delude non poco, invece, il suo esordio da regista solista con E’ Stato il Figlio (presentato a Venezia), progetto ambizioso nato sulla scorta di un romanzo dello scrittore palermitano Roberto Alajmo. Un film irrigidito e sconnesso che trasforma magicamente in difetti i pregi sopra rilevati del suo autore. Condividiamo pienamente le perplessità dei pochi che non si sono uniti alle truppe del plauso critico automatico all’opera prima del “Ciprì senza Maresco”. Sorprende prima di tutto un dato: in questa giravolta a 360 gradi, Ciprì regista sembra essersi portato appresso meno che nulla dell’esperienza straordinaria consumata in coppia col suo partner di un tempo. Diciamolo pure, in E’ Stato il Figlio non v’è traccia dello stile, della temperatura poetica e del rigore espressivo della parabola “Cinico”. Ed è curioso che di quel dettato, che ha saputo imprimere un’orma indelebile lungo il sentiero (sempre più disboscato) del cinema italiano, siano rimasti in questo film soltanto alcune trovatine esteriori e insopportabilmente stilizzate (inquadrature di panorami degradati e desertificati, di rovine panormite rintracciate in periferie pugliesi, di animali metropolitani mummificati a fare da architettura in un cortile, eccetera eccetera). Per E’ Stato il Figlio qualche recensore ha evocato lo spettro (ormai più scomodato che scomodo) di Pasolini e si è parlato di “misura grottesca” alla Ferreri: sviste non condivisibili. Se rimandi cinefili vi sono in questo film, essi si spingono lungo paralleli opposti a quelli evocati, semmai verso una Wertmüller prima maniera o (peggio) assecondando una dismisura enfatica di marca tornatoriana.Sostenuto dalla Apulia Film Commission vendolan–pugliese, il film si propone come un’acida tragedia familiare composta da personaggi e ambienti derivati dalla tradizione di Brutti, Sporchi e Cattivi, vecchi e nuovi “Mostri”, Mimì Metallurgico, Bruciati da Cocente Passione, e via rievocando: un bestiario sociologico che predispone un bersagliamento qualunquistico di grana grossa e da impianto “midcult”. L’incipit è ambientato all’interno di un ufficio postale, artificio retorico buono a innescare il solito flashback, con Alfredo Castro (attore feticcio del cineasta cult Pablo Larrain) impegnato, da “spiacciafaccende” ad evocare la storia della famiglia Ciraulo guidata da Nicola, disoccupato che si mantiene come può, spacciando pezzi di navi in disarmo per il mercato clandestino che, come si sa, è il pane quotidiano dei diseredati. Ad interpretarlo troviamo Toni Servillo, bravo attore votato all’eccesso (erede di una certa italica tradizione mattatoriale che a cinema ha trovato in Giancarlo Giannini il suo modello), qui però lasciato senza briglie a inerpicarsi in un crescendo stonato che ha tutte le cacofonie dello pseudo–dialetto panormita (alla Mery per Sempre) impastato di residui accenti partenopei. Nicola Ciraulo ha una moglie pinocchiesca (Giselda Volodi) e due figli: il maggiore è lo stralunato Tancredi (Fabrizio Falco, giustamente premiato a Venezia anche per la sua perfomance in Bella Addormentata di Bellocchio) mentre l’altra è Serenella (Alessia Zammiti). Ha pure un padre, il nonno Fonzio di Benedetto Raneli, e una madre, la nonna Rosa di Aurora Quattrocchi. Dopo una prima parte, che oscilla tra tentativi di ripescaggio di stereotipi da commedia all’italiana e derive pseudo–surreali che arrivano a citare i musical ironici di Roberta Torre, il film enuclea a ralentì il “fattaccio” che fa scatenare l’assunto: un proiettile (la cui traiettoria è sottolineata come in un film di Robert Rodriguez) che per errore uccide, al posto dell’ennesima vittima di mano mafiosa, l’innocente Serenella, il risarcimento familiare dovuto diventa così immediato oggetto di una turpe speculazione. Un amico e vicino di casa dei Ciraulo, il losco Giovanni Giacalone di Giacomo Civiletti (il più bravo in campo), si propone come mediatore interessato, alimentando la foia di un usuraio e le patetiche attese di Nicola e dei suoi fino alla decisione ultima del padre di famiglia: comprare, con il denaro intascato del rimborso statale per le vittime della mafia, nientemeno che una bella Mercedes.Nel raccontare tutto questo, Ciprì non smette per un attimo di citare tutto il citabile con stucchevole compiacimento: piani–sequenza alla De Palma, sgranature alla Scorsese, primissimi piani alla Leone, deformazioni alla Kubrick, lacerti onirici alla Spielberg o alla maniera “Pixar”. Una poltiglia visuale favorita dalla sceneggiatura zoppicante firmata da Massimo Gaudioso e da Miriam Rizzo che è anche secondo aiuto del regista. Il ritmo si fa ondivago, tra sequenze interminabili e passaggi drammaturgici tirati via: la noia incombe sovrana. E tutto questo sino al detour finale, da tragedia mediterranea (ancora la Wertmüller!) quando acquista rilievo la figura di Rosa, alla quale la Quattrocchi conferisce un piglio da attempata Erinni dei poveri (un exploit imprevisto quanto incongruo). Al bric-a-brac citazionista si aggiunge il difetto di una mancanza d’ispirazione manifesta: nessuna invenzione e non poca presunzione autoriale. E’ Stato il Figlio conferma la logica del fai-da-te che contraddistingue scelte e strategie di quel che resta dell’industria del cinema nostrano. In Italia, basta essere un comico alla moda, uno scrittore di best-seller o (in questo caso) un direttore della fotografia apprezzato per passare dietro la macchina da presa. I risultati, su grande e piccolo schermo e a quel che rimane del box office, sono quelli che sono. E’ conseguente a tale tendenza che il film di Ciprì sia stato selezionato in concorso, al Festival di Venezia, accanto a film di Paul Thomas Anderson, Malick, Kitano e De Palma. Un “vorrei ma non posso” inutilmente assecondato, capace di partorire l’ennesima cassata alla siciliana indigesta dove la misura del grottesco si stempera pallidamente nella citazione trash (che fa molto anni Settanta) della cassiera di cinema impegnata ad allietare sessualmente occasionali clienti adolescenti. Una scena (solo apparentemente in stile “Cinico”) dove Ciprì sembra aver dimenticato l’acidità fluorescente dei film della premiata ditta di cui faceva parte, la Maresco e Ciprì dove ogni sequenza fa cinema a sé. |