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Venuto al Mondo

Posted on October 25, 2018January 26, 2019 by revisioncinema

 

A volte, basta una telefonata per essere proiettati nell’irresistibile vortice della Storia. A legare il tempo interiore a quello oggettivo è spesso il caso, o quella determinazione che nasce da pulsioni intime, e spesso rimosse, a confronto con i grandi accadimenti delle ore e dei giorni. Per Gemma, la tragica anti-eroina di Venuto al Mondo, il fatale detour avviene proprio attraverso la telefonata del “suo” Gojko, un poeta bosniaco che la spinge a imbarcarsi su un aereo diretto a Sarajevo.
Gli anni terribili del conflitto in Bosnia ed Erzegovina, dal 1991 al ’95: è lo scenario del romanzo di Margaret Mazzantini (best-seller premiato al “Campiello” nel 2009) divenuto film, grazie al progetto dell’autrice che ha voluto dietro la macchina da presa il marito Sergio Castellitto, responsabile insieme a lei anche della sceneggiatura. Venuto al Mondo su grande schermo asseconda, con qualche sottolineatura retorica di troppo, il dettato della fonte letteraria, la sua venatura mélo sostenuta dalla debordante colonna sonora di Eduardo Cruz. A Castellitto bisogna riconoscere il piglio deciso con cui riesce a governare i passaggi più aspri della trama, restituendo il senso di questa metafora sul desiderio esausto di maternità ambientata in un contemporaneo teatro di guerra: In the Land of Blood and Honey, come recita il titolo del recente (e da noi ancora inedito) lungometraggio di Angelina Jolie attrice e neo–cineasta, anche lei impegnata in un’immersione a ritroso sul territorio lacerato della Iugoslavia di vent’anni fa. A dare sostanza emotiva e intensità straniata al personaggio di Gemma provvede Penélope Cruz, già diretta da Castellitto nel precedente mazzantiniano Non Ti Muovere, ben capace di far trasparire timori e tremori di quest’attesa misteriosa e dolorosa (lei che la maternità l’ha di recente conquistata felicemente).Spinto dall’amico Gojko (Adnan Haskovic), la donna si ritrova a Sarajevo in compagnia del figlio diciassettenne Pietro (Pietro Castellitto) in balia degli eventi e dei ricordi non meno dolorosi. Affiora in memoria la sua storia d’amore con l’esuberante, vitalissimo fotografo americano Diego (il sempre più bravo Emile Hirsch) che, nel 1984 (alla vigilia delle fatidiche Olimpiadi) la seduce a Sarajevo e in seguito si presenta a Roma all’apice della crisi coniugale col marito (interpretato da Vinicio Marchioni). Anno decisivo, quello, per l’allora ventenne Gemma, impegnata in ricerche bibliografiche e segnata dall’incontro con Gojko, suo complice e pigmalione; la liaison con Diego conduce a una sospirata gravidanza e allo shock di un aborto spontaneo come rivelazione di sterilità. Anche in quel caso la meta è Sarajevo, in fermento per il conflitto incipiente, dove si consumano le sedute con la psicologa incarnata da Jane Birkin a favorire la soluzione di un’adozione, poi vanificata da un nodo burocratico. Irrompe il personaggio di Aska (Saader Aksoy), una musicista musulmana fanatica dei Nirvana che, per esaudire la propria volontà di fuga, si propone alla coppia come utero salvifico.Tra flashback e flashforward, la storia rimbalza nel tempo attraverso il calvario interiore della protagonista a una peregrinazione sulle tracce dell’amato Diego, fuggito in pieno conflitto: tracce impresse in fotografie in bianco e nero che diventano vestigia di una realtà storica sanguinosa e irredimibile. L’unico conforto per Gemma sembra essere il rassicurante capitano dei carabinieri Giuliano (un cammeo che Castellitto si riserva con pudore e senso della misura) che la sposa regalandole una sicurezza economica.
Venuto al Mondo riserva altri capovolgimenti e colpi di scena, nella migliore tradizione del feuilleton però concettualmente controllato, insieme a sequenze struggenti e a rimandi cinefili irresistibili. Il regista punta sull’impatto emotivo di paesaggi (quelli della neve che imbianca i sepolcri) e di personaggi (come il padre di Gemma che ha l’aplomb scavato e schivo di Luca De Filippo), evidenziando continuamente simboli, come il tatuaggio floreale impresso sulla nuca martoriata di Aska, che evocano l’orrore fisico e fisiologico di una guerra capace di segnare indelebilmente le coscienze smarrite di coloro i quali l’hanno vissuta, da carnefici o da vittime. Una guerra, quella che vissuto il suo topos in Sarajevo, che opprime senza redimere, riducendo drammaticamente lo strazio di ogni affezione, offendendo ogni afflato di dignità e di bellezza (e il nodo rivelatore diventa così la spaventosa esibizione di disumanità dello stupro etnico). Una guerra banale e apocalittica come tutte le guerre che, come dice Gojko in un passaggio del film, solo Buster Keaton saprebbe raccontare. Così tutto l’orrore si concentra esorcizzandosi in catarsi nello sguardo del figlio di Gemma: il giovane Pietro che guarda, sullo schermo del suo Smartphone, il finale de Il Maniscalco, il cinema che si fa memoria di memoria e possibilità estrema di salvezza.

 

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